i primi istanti del terremoto dentro la basilica di San Francesco
A ogni terremoto lo sgomento, è grande. Ma quando il Drago affonda le zanne in una città come Assisi, è enorme. Assisi vuol dire san Francesco, il suo carico simbolico è straripante. Colpire Assisi vuol dire ancor più colpire il Paese intero, ciascuno di noi. Non a caso il 27 settembre 1997 il titolo di Avvenire in apertura di prima pagina lascia intendere che questo è il «sisma nazionale»: «Ore 11.42: l’Italia ferita al cuore. Il terremoto scuote Assisi. Dieci morti, tanti feriti, migliaia i senzatetto. La terra trema in Umbria e nelle Marche. Due scosse devastanti seminano il panico. Danni gravissimi alle abitazioni e al patrimonio artistico».
I primi inviati a recarsi sul posto sono Pino Ciociola e Giovanni Ruggiero. Ciociola racconta (con un inizio raggelante: «C’è sangue su una pietra») la terribile beffa della Basilica superiore di Assisi: «La notte c’era stata la prima scossa. Qualche danno, poca roba. Ieri mattina il sopralluogo per controllare: entrano in basilica una ventina di persone, tra tecnici, funzionari, il sindaco, gli addetti ai lavori della Sovrintendenza, e cinque frati». In quel momento la seconda, ben più violenta scossa: «In quattordici riescono a uscire più o meno indenni. Altri due sono feriti. In quattro invece rimangono seppelliti». Tra gli sventurati due frati, «il rettore del postulato e un postulatore: li hanno trovati abbracciati». Il bilancio è crudele: «Alla fine – scrive Ciociola – i danni saranno terribili. Anche alle cose. Basiliche chiuse, inagibili tutte le camere del convento lesionate, i pavimenti del museo, del salone papale, della camera del Papa, della biblioteca del Quattrocento e del refettorio sono bianchi di polvere e di pezzi di intonaco. Decine e decine di case sono ferite profondamente: lo si vede anche da fuori».
Ruggiero va nelle Marche, a Cesi, davanti a quel che resta della chiesa di San Lorenzo. «Cosa pensate che sia il terremoto? – scrive –. Muri gonfiati e segnati da ferite profonde, pioggia di calcinacci, letti in bilico su un pavimento che mostra le travi piegate, un lampadario che dondola in una stanza con solo due pareti e un triangolo di soffitto (...). Ma il terremoto è principalmente la terribile sensazione che tutto sia finito».
Ancora ad Assisi, Pino Ciociola intervista il vescovo, Sergio Goretti: «Prima le persone, poi i monumenti». Maria Rita Valli raccoglie la testimonianza del custode, padre Giulio Berrettoni: «Sono salvo per miracolo, i calcinacci mi sono caduti a un metro». E a rendere bene lo stato d’animo dei frati è il direttore del mensile San Francesco, padre Egidio Monzani, che il 28 settembre scrive: «Assisi è diventata irreale, impensabile, impossibile». Se la Basilica superiore «è ferita, non morta, rimane però sorprendentemente intatta la Basilica inferiore, che invita a recarsi in silenzio e in preghiera all’altare del sacrificio. Rimane intatta a sfidare la furia della natura il sepolcro, che raccoglie i resti umani dell’esperienza evangelica di Francesco d’Assisi.
Un altro prete del terremoto scrive su Avvenire ed è una firma nota, don Tonino Lasconi di Fabriano: «"E adesso don Tonino?". "Adesso si ricomincia"». Tutto è distrutto. Chiesa, aule del catechismo, casa parrocchiale, chiese di Fabriano già distrutte e ricostruite nel Quattrocento e nel Settecento, dopo altri terremoti. «È il momento di dimostrare coi fatti che crediamo nella vita che non finisce mai. Adesso tocca a noi. Lo sussurro per dirlo a me, prima che agli altri. Un cumulo di macerie, se lo si guarda in un certo modo, appare come terreno semplicemente smosso. Reso più facile per una nuova semina. Sì, anche stavolta. Dio sii con noi».
Certo, tutto può tornare come prima. Ne è convinto anche Franco Cardini (27 settembre): «I nostri restauratori fanno miracoli. Ci vorranno miliardi e occorreranno mesi e magari anni di lavoro: ma riavremo il nostro Cimabue; anzi, la calamità sarà stimolo a nuovi studi, a nuove ricerche». È il tempo anche delle solite domande, solite ma non per questo meno vere. «Chi manda i terremoti? Dio? No – scrive Mario Marazziti sempre il 27 –, Dio non manda i terremoti. Il nostro Dio è sotto le macerie e accanto alle vittime delle macerie. È vittima del male e consolazione del male».
Ad Assisi arriva anche un giornalista originario della città di Francesco. Conosce alla perfezione i luoghi e per prima cosa nota «le campane ammutolite. Straordinariamente silenti – scrive Marco Tarquinio – qui dove di solito tra grandi e piccole tacciono ben poco». Le case, osserva il futuro direttore di Avvenire, sono lesionate dentro: «In un luogo dove l’amore per la pietra antica si è fatto tenace lavoro di restauro sono pochi i tetti sprofondati o le mura divelte, ma le case non sono più amiche. Un cancro terribile le ha invase e, scossa dopo scossa, vi si è annidato e qui, dove ognuno si sente parente di Francesco e di Chiara e geloso vicino di casa di Giotto e Cimabue, molti già sanno che Assisi più che ricostruita va ricominciata. Mondata e ricominciata».