La faccia che conservo di te è quella che mi guardava dall’alto degli scogli a Cala Sarraina, in Gallura, in una radiosa mattina d’estate. Volevamo andare a quella certa piccola cala, io a nuoto, tu su per i bricchi, com’era tua abitudine. Io temevo che tu precipitassi, tu invece che mi mancasse il fiato. Ci chiamavamo, sul mare, sotto il sole allo zenit: «Marina!» «Luigi!»
La tua bella faccia da abruzzese, da figlio di poveri, da ex ragazzo di periferia tirato su da don Luigi Giussani come un figlio. Di figli, poi, con Anna ne avete avuti sei. Eri sempre di corsa, arruffato. Le tue camicie improbabili, la provocatoria ineleganza di cui, nel tempo del “look”, andavi fiero.
Che adesso tu sia sotto la terra nera è cosa, dopo tre anni, per me ancora intollerabile. Impetuoso, combattivo, generoso: tu così vivo, morto? Impossibile.
Rivedo la ruspa che in un piccolo cimitero lombardo, in un giorno grigio di ottobre, ricopriva con la benna colma di terra la fossa. No, ancora non può essere vero. Come hai potuto andartene e lasciarci, tu, quello di noi che ci dava coraggio.
Ancora, se un titolo di giornale mi diverte, mi dico: mando un Whatsapp a Luigi. Come sapevi farmi ridere, come perdonavi ogni cosa.
Eppure, quel nostro chiamarci fra gli scogli e il mare lo risento, quando sono sola e in silenzio. «Luigi!» «Marina!» La tua voce buona dentro di me, ancora.
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