Una sera di dicembre. Aspettavo mio marito a un ingresso laterale della Stazione Centrale. Pioveva leggermente. Ho notato un uomo con un grosso fagotto sulle spalle farsi avanti, affacciarsi sulla piazza e guardarsi attorno. Poi l'uomo è rientrato in stazione. Dopo cinque minuti ne è riemerso, seguito da una donna in chador e sei bambini: quattro maschi sotto ai dieci anni che spingevano a fatica valigie più grosse di loro e una bambina attaccata alla gonna della mamma, che teneva in braccio l'ultimo nato. Sulla soglia della Stazione il padre, dai tratti direi siriano o afghano, ancora guardingo ha controllato che non ci fosse polizia attorno. Poi ha fatto cenno ai bambini di sbrigarsi, e quelli, svelti, lo hanno seguito, trascinandosi le grosse valigie verso un punto che il padre pareva conoscere: dove qualcuno li aspettava. Ho guardato gli occhi della donna sopra al velo: erano neri e molto giovani. Quel frettoloso spingere bagagli ingombranti e legati con lo spago mi ricordava gli arrivi della gente del Sud a Milano, negli anni Sessanta. Ho visto quegli otto allontanarsi sotto la pioggia, con pena. Eppure con commozione. Quei bambini venuti da lontano saranno, fra dieci o vent'anni, cittadini europei. Sei bambini in una volta sola: in una notte d'inverno, clandestino, spaurito, ho visto arrivare un piccolo pezzo di futura Europa.