La Cop26 e la vita dei «piccoli». Una tenace mano tesa
A Glasgow c’erano i rappresentanti di 196 Paesi più l’Unione Europea. Alla fine, però, la mano decisiva l’hanno giocata in quattro: Bruxelles e Washington da una parte, New Delhi e Pechino dall’altra. Potenze tradizionali – e inquinatori storici, responsabili di oltre il 50% delle emissioni globali degli ultimi 150 anni con appena il 12% della popolazione globale – contro nuovi ricchi o Brics. Termine quest’ultimo caduto in disuso dopo l’exploit di inizio millennio e riportato in voga dalla Cop26. Perché la terza e la quarta lettera della sigla – India e Cina – sono, rispettivamente, il terzo e il primo produttore di CO2. Il precario equilibrio, costruito pazientemente dallo stratega e presidente della Cop26 Alok Sharma, ha rischiato di infrangersi, letteralmente, su un avverbio un’ora prima del finale, posticipato di un giorno.
Dal testo già distribuito ai giornalisti, nel controverso paragrafo 36 a proposito del carbone, è scomparso l’ “ out” che, posto accanto al “ phase” significa “eliminare”. “ Phase-out” è, così, diventato “ phase-down”, cioè ridurre. È’ stato il ministro dell’Ambiente indiano, Bhupender Yadav, l’artefice del colpo di mano. In realtà, dai concitati movimenti tra i banchi della plenaria di John Kerry e Frans Timmerman, rappresentanti rispettivamente di Usa e Ue, è chiaro lo zampino di Pechino e del suo impassibile inviato Xie Zhenhua, con il sostegno più o meno esplicito di Australia, Sudafrica, Russia e Arabia Saudita. Un duro colpo per l’Amministrazione Biden e per Bruxelles impegnate ad assumere la leadership del fronte verde. Gli occhi luccicanti di uno sfinito Sharma, immortalati e diffusi ossessivamente dalle tv internazionali, ne sono la sintesi eloquente.
Sarebbe, però, fuorviante ridurre il ventiseiesimo summit Onu sul clima al duello fra Grandi, vecchi e nuovi poco cambia. Un’altra battaglia s’è svolta nel labirintico centro congressi di Glasgow anche se ha avuto meno eco mediatica: quella combattuta – con estrema dignità – dai Paesi poveri. Un universo composito – dalle nazioni africane, asiatiche e latinoamericane alle minuscole isole del Pacifico – sul quale si accaniscono le conseguenze del mutamento climatico. Fenomeni come siccità record, cicloni anomali, piogge torrenziali, innalzamento repentino del livello degli Oceani, di cui hanno ben poca responsabilità, passata e presente. Per quattordici lunghi giorni, nelle sale ufficiali e nei corridoi, i delegati hanno portato la loro testimonianza e chiesto giustizia.
Ovvero una compensazione economica per gli sforzi improbi compiuti per adattarsi al mutato clima e riparare i danni da questo prodotte. Perdite reali di vite, progetti, tradizioni, culture, non numeri su una tabella scientifica, per quanto accurata e veritiera. Frasi di circostanza a parte, i Grandi non hanno saputo o voluto ascoltare. A differenza di quelle di Sharma, le lacrime del ministro delle Finanze di Tuvalu, Seve Paeniu e degli altri delegati dell’Oceania, all’uscita dell’ultima plenaria, sono rimaste invisibili. Pochi hanno prestato attenzione al dolore manifesto di oltre 130 nazioni del Sud del pianeta che hanno visto per l’ennesima volta le loro richieste respinte. Non per mancanza di fondi bensì di volontà: i cento miliardi di dollari l’anno promessi e mai raggiunti rappresentano meno di un quarto di quanto investito dagli Stati in sussidi ai combustibili fossili.
Nemmeno il “precedente” segnato dalla piccola Scozia – l’unica a rompere un tabù e a stanziare 1,4 milioni di euro a mo’ di compensazione ai più vulnerabili – ha smosso gli altri partner internazionali. Eppure proprio il grido degli ultimi – il medesimo grido della Terra, come ha ricordato anche domenica papa Francesco nella Giornata dei poveri –, potrebbe dare al pressing europeo e statunitense la forza per fare il salto di qualità. Di acquisire quella potenza morale capace di scompaginare gli equilibrismi diplomatici. Anche in questo, le nazioni ultime del mondo – dove risiedono oltre sei miliardi di persone – hanno dato un esempio di dignità. Posti di fronte alla scelta tra affossare un accordo ingiusto o sostenerlo in nome dei piccoli passi verso la riduzione delle emissioni, hanno scelto, a malincuore, la seconda strada.
Il Sud del mondo ha teso, di nuovo, la mano. Ora tocca a Europa e Stati Uniti uscire dalla gabbia dell’egoismo e afferrarla. Altrimenti la loro battaglia per il clima rischierà di apparire come una riedizione verde della lotta per la supremazia geopolitica. Ben altro rispetto a quell’ecologia integrale – fondata sulla giustizia – di cui il presente e il futuro hanno urgenza.