mercoledì 25 febbraio 2015
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Dai tempi più lontani cui risalgono i miei ricordi d’infanzia fino a oggi, i più poveri mi sono apparsi come delle famiglie – in sostanza tutto un popolo – alle quali era vietato abitare il mondo degli altri; abitare la città, il paese, la terra. Come si poteva infatti definire «abitare» questo modo di ammassarsi, nascondersi, ripararsi con mezzi di fortuna, al margine del quartiere dove la mia stessa famiglia viveva in un tugurio? Popolazione relegata nella città bassa di Angers, in mansarde, in qualche locale sul cortile dove il sole non entrava mai, in uno stanzino senza finestre, in fondo a un corridoio, in uno scantinato non destinato ad abitazione. Popolazione che per il fatto stesso di abitare la terra in questo modo, era ritenuta indegna di abitare accanto a famiglie meno sventurate. Più tardi, parroco di campagna, invitato a desinare la domenica dall’uno o l’altro dei proprietari agricoli della mia parrocchia, trovavo seduti alla stessa tavola dei lavoratori agricoli stagionali. Provenivano da alloggi privi di comodità, prestati loro per il tempo del contratto di lavoro. Sedevano all’estremità della tavola dove veniva servita soltanto una minestra, mentre gli invitati che circondavano il proprietario ricevevano un pasto completo. Lavoratori che abitavano in luoghi diversi uno dopo l’altro, sempre provvisoriamente, e per i quali anche la qualità di invitati della domenica era conforme alla qualità di uomini poveri da alloggiare e nutrire al minor costo possibile, per il tempo del loro servizio.  Uomini, famiglie che, venuto l’inverno, avrebbero dovuto rifugiarsi in una capanna nascosta nel sottobosco, in un riparo fatto di terra e rami, scavato in un pendio di collina per non bagnarsi, in un granaio abbandonato...  Infine arrivai al campo dei senzatetto a Noisy-le-Grand, terra fuori del mondo dove centinaia di famiglie abitavano in «igloo» di fibro- cemento che altrove erano destinati ai maiali; e anche questo solo provvisoriamente, chi infatti poteva ammettere a lungo una «lebbra» del genere alle porte di Parigi? Qui di nuovo trovavo famiglie trattate come oggetto di provvedimenti, di aiuti e di controlli, più che come soggetti di diritti. Famiglie che avevano come sola identità una denominazione negativa: 'asociali', «disadattate», «pesanti», «famiglie con problemi »; la sola etichetta più o meno neutra di «senza tetto» era stata a poco a poco soppressa.  Vennero poi gli anni in cui, con la diramazione nel mondo del Movimento ATD Quarto Mondo, il mio cammino mi condusse attraverso l’Europa e in tutti i continenti. Per ritrovare sempre, nei confronti dei più poveri, questo stesso divieto di abitare la terra e di esistere rispetto agli altri. Famiglie sul lastrico nelle grandi città dell’America del Nord, la loro identità familiare annullata per essere stipate, i bambini e le madri da un lato, i padri dall’altro, nei ri- coveri del sistema di assistenza. Famiglie dell’America latina che hanno lasciato la campagna e la fame per arroccarsi ai bordi di un precipizio vicino alla capitale. Nell’ambito di queste famiglie, le nascite  e le morti non vengono registrate, perché non dovrebbero trovarsi in luoghi dove è vietato abitare. Quando la pioggia tropicale trascina una capanna nel precipizio, questo significa che dei bambini avranno vissuto e saranno morti senza mai essere esistiti per le amministrazioni, come non esistono nei registri e nelle statistiche nazionali e internazionali le famiglie stabilite su un terreno paludoso, ai bordi di una baia, in qualche località delle Antille. Esse vi si trovano illegalmente e, dopo il passaggio del bulldozer per spianare il terreno in vista di un’altra utilizzazione, nessuno avrà mai notizia delle centinaia di ricoveri, delle misere suppellettili ridotti in polvere. Nessuno saprà dove vanno errando, dove si nascondono queste famiglie ovunque indesiderate. Che dire pure dei bambini che vivono nella strada, in tutti i continenti in via di sviluppo, guadagnandosi il pane da soli, mendicando e rubando per nutrirsi e talvolta per nutrire tutta la famiglia? Che dire dei bambini sdraiati la notte accanto a un mattatoio e che all’alba rovistano nei rifiuti della città? È il risultato inevitabile dell’inumano divieto fatto ai più poveri del diritto di abitare la terra. Risultato di cui non sempre ci riconosciamo sufficientemente corresponsabili, nei paesi ricchi. La fine del cammino è soprattutto il passaggio da una identità già negativa a questa specie di non identità, di non esistenza amministrativa, a questa cancellazione da ogni registro, da ogni statistica. Degli esseri umani, delle famiglie appaiono allora solo come dei fantasmi: sono stati visti, ma non si sa più dove e quanti siano. È la fine di ogni speranza di fare ancora parte di coloro che un giorno proclamarono «Noi, popoli delle Nazioni Unite», questa comunità internazionale che aveva scelto come obiettivo la realizzazione dei Diritti dell’uomo.  È anche la fine di ogni speranza – perché si esisterebbe ancora agli occhi del mondo – di poter unire le proprie forze a quelle degli altri, per combattere insieme per la conquista dei diritti. Più gli uomini sono poveri, privati del diritto di abitare la terra, più avrebbero bisogno di unire le loro forze attraverso il mondo. E invece, sfortunatamente, meno diritti hanno e meno sono liberi e in grado di unirsi per una qualsiasi lotta comune. Infatti, senza identità presente sono anche privi di storia e fuori della storia del proprio popolo. Sono interdetti di appartenere (come un prodigo viene «interdetto») a una collettività che, in nome della storia passata e presente, persegua un progetto di avvenire comune.  Questi sono i fatti. Ma ciò che conta maggiormente non è forse la sofferenza che si cela dietro di essi? La grande povertà, nel pregiudicare l’insieme dei Diritti dell’uomo, rappresenta uno spreco inaccettabile d’intelligenza, inventiva, speranza e amore. È lo spreco di un capitale incalcolabile rappresentato da uomini, donne, bambini esclusi dal diritto, dall’amministrazione, dalla comunità e dalla democrazia. E soprattutto, dietro il silenzio dei nostri registri e delle nostre statistiche, sussiste un’infanzia mutilata, giovani abbandonati alla disperazione, adulti ridotti a dubitare della loro condizione di uomini e della loro dignità. I più poveri infatti ce lo ricordano spesso: la fame, l’analfabetismo, la stessa disoccupazione non sono la peggiore sventura per l’uomo. La peggiore sventura è sapersi considerati un niente, al punto che persino le proprie sofferenze vengono ignorate. La cosa peggiore è il disprezzo dei vostri concittadini, poiché è il disprezzo che vi esclude da ogni diritto, che fa sì che il mondo ignori ciò che voi vivete, che vi impedisce di essere riconosciuti degni e capaci di responsabilità. La più grande disgrazia dell’estrema povertà è di essere come un morto vivente per tutta la vita.
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