C’è stato un periodo, durante la seconda guerra mondiale, e un luogo, nel cuore dell’Europa, in cui migliaia di ebrei riuscirono a sottrarsi alla furia persecutrice dei nazisti e della polizia collaborazionista francese, aiutati da gruppi di soldati e di ufficiali dei carabinieri e dell’esercito italiano. Il luogo era la Francia meridionale, l’allora
État Français presieduto con pugno di ferro dal maresciallo Pétain; il periodo quello compreso tra la fine del novembre 1942 e l’8 settembre ’43, vale a dire i dieci lunghi mesi di occupazione dei dipartimenti amministrati da Vichy da parte delle forze dell’Asse. Di questo pezzo di storia, da più parti definito incredibile considerate le feroci leggi razziali in vigore in tutti i territori europei controllati dai tedeschi, si è parlato molto poco. E lo si è fatto solo in tempi relativamente recenti, rispolverando per esempio l’episodio di Saint-Martin-Vésubie, il paesino a nord di Nizza occupato dai militari italiani e diventato il rifugio sicuro per moltissimi ebrei. Mai, però, si è parlato di "quegli" italiani, degli uomini in divisa che, sfidando il cinismo degli accordi politici, il rischio di scontri a fuoco con gli alleati germanici e di cruente rappresaglie contro le proprie famiglie, si sono rifiutati di consegnare alla Gestapo e alla polizia di Vichy gli elenchi degli ebrei di quel Paese. Non li hanno arrestati né respinti alle frontiere né tantomeno caricati nei treni piombati diretti ai campi di concentramento. Hanno semplicemente obbedito alla legge della fratellanza prima che alle leggi di guerra.Il capitano dei carabinieri reali Massimo Tosti, classe 1901, molisano di pochissime parole e di molti fatti, è stato uno di loro. Uno di "quegli" italiani che si potrebbero definire "eroi". Dislocato insieme al Decimo Battaglione Carabinieri Mobilitato (dipendente dalla Legione Mobile di Milano) nei territori costieri di Mentone e Nizza, tra il 1942 e anche successivamente all’8 settembre ’43 l’ufficiale aiutò centinaia di persone, ebrei, ma anche militanti antifascisti, a salvarsi. E, per farlo, mise in pericolo la sua vita e quella della famiglia. Per non parlare della carriera. Tosti, come confermano alcune lettere autografe ritrovate dal figlio e dalla nipote nella sua ultima residenza a Milano, dove è morto nel 1976, facilitò l’arrivo nel dipartimento delle Alpi marittime di diverse migliaia di perseguitati di religione ebraica. Francesi, ma anche olandesi e belgi. Fornì falsi documenti e sistemazioni sicure nei territori dell’entroterra occupati dagli italiani.In queste preziose operazioni l’ufficiale godeva della collaborazione del celebre banchiere italo-francese, già console generale della Repubblica di San Marino, Angelo Donati, il
Pape des juifs come lo chiamavano sprezzantemente le milizie transalpine, che strappò al pericolo della morte quasi tremila persone trasferendole nel villaggio di San-Martin-Vésubie. E fu proprio il modenese Donati, nel 1945, a ricordare in una missiva il lodevole contributo offerto da Tosti alla causa ebraica. «Il detto ufficiale – si legge – ha dimostrato senso di comprensione e di umanità, facilitando l’arrivo di circa quattromila ebrei nelle Alpi marittime e la loro sistemazione in centri designati di comune accordo fra il comando dei carabinieri e il sottoscritto, interpretando nel senso il più favorevole agli ebrei le disposizioni delle superiori autorità. Il capitano Tosti, insieme al capitano Salvi – prosegue il documento firmato da Donati –, dopo l’8 settembre 1943 ha provvisto di falsi documenti un numero importante di ebrei stranieri che avevano attraversato le frontiere per rifugiarsi in Italia e sfuggire alla Gestapo». Sebbene sconosciuta in Italia, la loro opera, e quella dei carabinieri italiani, ha avuto una certa risonanza a livello internazionale tanto da essere evocata, continuava Donati, «in congressi mondiali ebraici, tenutisi negli Stati Uniti». E, ancora, ai due ufficiali ha dedicato alcune righe anche lo storico e filosofo franco-russo Léon Poliakov nel saggio
La Condition des Juifs en France sous l’Occupation italienne (1946). Oltre a Donati, molti altri ebrei messi in salvo dal capitano, gli scrissero, anni dopo, lettere piene di stima, riconoscenza e affetto. E pure molti antifascisti liguri che egli sottrasse alla fucilazione e alla deportazione misero nero su bianco la loro gratitudine, a guerra finita. «Ciò che fece mio padre è stata una scoperta anche per me, visto che non parlò mai di queste cose in famiglia – spiega il figlio Giancarlo, oggi settantottenne – non sapevo che papà avesse aiutato così tanta gente. Sapevo invece che era ricercato dalle SS e che, per questo, dalla fine del ’43 al ’45 aveva vissuto col timore che da un momento all’altro lo andassero ad arrestare per attività sovversiva. Ero bambino, ma ricordo che qualche volta alcune persone, che ho saputo poi essere ebree, venivano a casa nostra e lo pregavano di tenere con sé i loro gioielli, riconoscendo in lui una integrità e una umanità ben più profonde di quelli che erano i principi inculcati a un ufficiale dei carabinieri reali». Parole capaci, da sole, di riassumere l’intera storia di Massimo Tosti (terminò la carriera col grado di tenente colonnello) e che diventano una lezione importante, raccolta, non da ultimo, da colui che al tempo era un suo giovane e promettente collaboratore: il capitano, e futuro generale, Carlo Alberto Dalla Chiesa.