La terza sezione della mostra “Grande Brera. Una comunità di arti e scienze” a palazzo Citterio - Ansa
Chi lo vive tutti i giorni lo chiama, con ironia e affetto, “il condominio”. È il palazzo di Brera, che oggi con l’apertura di palazzo Citterio, dopo una storia lunga 52 anni, diventa la Grande Brera. Perché quel palazzo che più milanese non si può non è solo Pinacoteca e Accademia. Sono otto le istituzioni che vi coabitano: oltre alle citate, troviamo l’Osservatorio astronomico, la Biblioteca Braidense, l’Orto botanico, l’Istituto lombardo Accademia di Scienze e lettere, gli Amici di Brera e, dal 2008, l’Archivio Ricordi. Ecco perché Luca Molinari ha intitolato “La Grande Brera. Una comunità di arti e scienze” la bella e ricca mostra da lui curata, con cui palazzo Citterio inaugura la sua nuova vita espositiva: «Otto grandi archivi e otto biblioteche: un bacino della storia della città che rende questo luogo unico», racconta l’architetto e critico dell’architettura: «Un dispositivo che è allo stesso tempo un aggregatore di memoria e un disseminatore di identità e sapere».
Architetto, lei si sofferma sulla natura composita di Brera. In questo senso è un racconto in sintesi di Milano?
«Sì, anche se non in maniera esclusiva: penso ad esempio la più aristocratica Ambrosiana, che nasce qualche anno dopo. Brera racconta la presenza contemporanea di tante competenze, culture e discipline che caratterizzano Milano e ne rafforzano l’identità sociale e culturale borghese. Brera segna l’arrivo in città dei gesuiti i quali, sul sito del convento trecentesco degli Umiliati, danno vita al primo istituto di Milano autorizzato a conferire una laurea, allora in teologia. È un luogo di sapere ed educazione della classe dirigente che si amplia alla scienza: gesuiti infatti sono anche i primi astronomi. Dopo la soppressione dell’ordine nel 1773, il palazzo continua nelle sue funzioni e con la riforma teresiana del 1776 cresce: vi vengono create le Scuole Palatine, istituita la Braidense, sul nucleo di quella gesuitica, fondati l’orto botanico e l’accademia di belle arti. Su questo corpo si innesta in età napoleonica la Pinacoteca. Dunque, Brera è il primo luogo ibrido, multifunzionale. Ma allo stesso tempo, la sua è una storia di interiorità, proprio come Milano, che fino a quella del Duomo è stata una città senza piazze, è una città di interni, intima».
Dall’esterno in effetti il palazzo appare monolitico.
«Sì, eppure la facciata del Richini presenta un portale del Piermarini: è un innesto quasi impercettibile. L’elemento di complessità aumenta man mano si avanza all’interno: qui ci si perde tutti. Se la Brera di Portaluppi, ricostruita dopo i bombardamenti nel 1943, ha messo un po’ d’ordine negli spazi, resta la storica sovrapposizione coabitativa di comunità diverse: qualcosa di molto contemporaneo. Oggi l’occhio attento riconosce i frammenti: ad esempio, i resti della chiesa affacciati sugli orti botanici e nei laboratori di scenografia. È una vera e propria stratigrafia visiva, riscontrabile anche nelle lapidi e nel pantheon delle statue, che testimoniano la storia civile e laica della città».
In che modo questo palazzo racconta anche lo sviluppo di Milano?
«La Brera degli umiliati nasce periferica: la “braida” è un termine che indica un prato suburbano. Quando a fine Cinquecento arrivano i gesuiti, quest’area, ancora periferica, si rafforza progressivamente, iniziano a posizionarsi alcune residenze importanti, tra cui anche palazzo Citterio. È una zona che attraversa poi una moltitudine di trasformazioni sociali, che seguono l’espansione popolare della città. Caterina Bon Valsassina, in un libro che ricostruisce in modo esemplare il caso di palazzo Citterio, osserva come ancora nella Milano degli anni ‘70 l’area di Brera fosse una compresenza di alto e basso, popolare e ricco: tutto questo facciamo fatica a leggerlo oggi nell’area più gentrificata della città e per questo abbiamo voluto raccontarlo nella mostra, spinti da Brera stessa: partiti dall’architettura, ci siamo affacciati dal palazzo sul quartiere».
Dove possiamo riconoscere il timbro di Brera sulla città?
«Basti pensare che l’accademia per duecento anni ha formato tutti gli artisti, gli architetti e gli scenografi che hanno operato a Milano. Non c’è edificio fino agli anni ‘20 che non sia uscito, in un certo senso, da Brera. I suoi astronomi nel 1786 hanno costruito la meridiana nel Duomo, per calcolare il mezzogiorno reale e fissare l’ora “alla francese”. Dieci anni dopo pubblicano una Carta topografica del Milanese e del Mantovano che costituisce la prima triangolazione geodetica effettuata in Italia e una delle prime in Europa. Dal Settecento a oggi leggono gli umori meteorologici della città. Infine, nella Pinacoteca e nella Grande Brera si sono esercitati, poco importa se con risultati concreti o rimasti sulla carta, tutti i più importanti architetti che hanno disegnato la Milano moderna, da Portaluppi a Terragni e Figini, da Gardella a Aulenti, Bellini e ora Cucinella. Senza ovviamente dimenticare l’internazionalità di James Stirling. Un vero laboratorio di architettura».
Cosa cambia ora con l’entrata in funzione di palazzo Citterio?
«Molto. Il palazzo di Brera è un blocco che guarda dentro di sé. Con l’integrazione di palazzo Citterio e con il collegamento a venire tra il giardino e l’orto botanico, si configura un meccanismo urbano, un corpo di città che si apre. È un pezzo di città policentrico, a più assi, integrato. Ora che quest’ala apre finalmente al pubblico, ragionare di “Grande Brera” significa andare oltre il logo e guardare a questo sistema come un laboratorio continuo, da rileggere con attenzione per proiettarne la missione pubblica in una fase nuova e necessaria della sua vita».
La mostra come racconta tutto questo?
«Quelli dell’ultimo piano di palazzo Citterio sono spazi complessi, nella ripartizione e nelle altezze. Abbiamo lavorato su tre ambienti molto diversi. Nel primo si incontra un modello in scala gigante di tutta la Grande Brera, insieme ad altri quattro modelli che raccontano l’evoluzione di questo luogo a partire dal convento degli Umi-liati, di cui viene tentata per la prima volta la ricostruzione. Abbiamo dunque uno sguardo di sintesi, che viene sciolto nel percorso in una dettagliata lettura cronologica che districa i nodi del manufatto architettonico, allargato a suo tempo a Palazzo Citterio, con disegni, mappe, fotografie, modelli... La terza parte è quella più sfidante. Per restituire la compresenza delle molte anime rimescoliamo le carte, proprio come accade nell’edificio. Ecco allora mescolati tra loro Hayez, Fernanda Wittgens, le scolaresche degli anni 50, il bar Giamaica di Ugo Mulas, il cannocchiale dell’osservatorio, gli erbari dell’Orto, i gessi di Canova, le tavole di Zenale per la chiesa... Brera come wunderkammer »