mercoledì 11 maggio 2011
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Rispondere è cortesia, recita il vecchio adagio. Ecco, a Umberto Galimberti si chiede soltanto questo: un po’ di cortesia. Lo ha ribadito, lunedì sul "Corriere della Sera", Pierluigi Battista: «Non che Galimberti avrebbe dovuto sottoporsi all’odioso e umiliante rito dell’autocritica. Ma qualcosa un filosofo giustamente stimato dovrebbe pur dire per rispondere ai giornali, in primis "Il Giornale" e "Avvenire", che hanno puntualmente documentato una serie impressionante di prestiti». E anche, più ancora che ai giornali, una risposta la dovrebbe ai lettori dei suoi saggi e de "La Repubblica", ai telespettatori di Santoro e delle altre trasmissioni televisive e radiofoniche che lo annoverano spesso tra i propri ospiti, al vasto pubblico dei festival culturali ai quali immancabilmente prende parte, ai suoi studenti della Ca’ Foscari di Venezia. Non autodafé si chiedono, dunque, ma una qualche spiegazione sul suo metodo di lavoro, nel quale i plagi delle opere altrui – di Salvatore Natoli, Giulia Sissa, Alida Cresti, Guido Zingari, eccetera – e perfino di se stesso paiono avere, a un’analisi appena approfondita, un ruolo determinante. A metterlo in chiaro è Francesco Bucci nel suo dettagliatissimo e puntiglioso Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale (Coniglio Editore, pagine 286, euro 15,50), che – dopo anni di lavoro di comparazione entro l’imponente opera omnia galimbertiana – dimostra inoppugnabilmente come la pratica del copia e incolla non sia, per il filosofo, un incidente, per quanto ricorrente: ma un vero e proprio metodo di lavoro costante. «Come il Lego».Prego?«I suoi lavori sono costruiti utilizzando pezzi di scritti precedenti, suoi o altrui. Come i mattoncini del Lego, appunto. Solo che con quei mattoncini si possono fare due cose molto diverse: assemblare edifici, macchinine o altre costruzioni con una logica, oppure metterli insieme nella maniera più strampalata, creando opere informi. Ed è esattamente quello che ho riscontrato nei due recenti libri di Galimberti sui quali mi sono soffermato, La casa di psiche e L’ospite inquietante: non hanno consequenzialità, i vari pezzi talvolta si contraddicono l’un con l’altro...».Per esempio?«Galimberti è nato junghiano; poi, con il tempo, ha cambiato idea e ha rivalutato Freud. Ebbene: ne La casa di psiche il lettore prima trova un passo – scritto originariamente vent’anni prima, in piena fase junghiana – dove si parla bene di Jung; poche pagine dopo, eccone un altro, più recente, dove si critica Jung con argomenti diametralmente opposti al primo spezzone».Come ha scoperto questo modus operandi?«Da lettore de "La Repubblica", per caso. Non sono mai stato un profondo ammiratore di Galimberti, ma i suoi articoli li leggevo: finché non ho iniziato a rendermi conto che c’era qualcosa che non andava, un senso di déjà vu>. Ho tenuto da parte qualche articolo, ho iniziato a confrontarli, e ho constatato che dei passi, anche lunghi, ritornavano identici o quasi a distanza di tempo. Colto dal dubbio, ho esteso la ricognizione ai suoi libri, fino a leggermeli tutti: negli ultimi, il "tasso di riuso" di materiali già editi dallo stesso Galimberti arriva all’ottanta, novanta per cento».Si è fatto un’idea di come funziona, nella pratica, il metodo Galimberti?«Ritengo abbia una memoria prodigiosa, perché capita di sentirlo ripetere esattamente le stesse parole in conferenze, convegni e occasioni diverse. E poi ha sicuramente un archivio tematico, nel quale pesca a seconda delle occasioni; poi aggiunge qualche riga per cucire insieme i pezzi e apporta alcune modifiche. Piccole, ma sostanziali: cambia per esempio le parole chiave, per cui un vecchio articolo dove parlava della "violenza assurda degli ultrà" diventa una riflessione sulla "violenza nichilistica degli ultrà", perfetto per L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani».E di originale, nella sua opera, che cosa rimane?«Pochissimo, quasi nulla. Almeno, questa l’idea che mi sono fatto. Sembra un enorme lavoro di copiatura o, quando va bene, di parafrasi: di Heidegger, di Jung... E i suoi lavori, assemblati con materiale più volte riciclato, non hanno più alcun senso. Questa è la cosa che mi sorprende di più: possibile che nessuno dei suoi lettori se ne accorga? Nessuno a "La Repubblica"? Nessuno alla Feltrinelli? Quando Rovatti recensisce La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, ne tesse l’elogio, eppure è costretto a rilevare che di "pratica filosofica" quel libro non parla affatto: ne è il "fondale muto", scrive, "perché Galimberti vi dedica una nota in tutto". Lo credo bene: quel libro è il collage di materiale vecchio di decenni, mentre di "pratica filosofica" in Italia fino al 2000 non aveva parlato nessuno – men che meno lo stesso Galimberti».Con il passare del tempo le cose non sono cambiate?«Sì: ma in peggio. Il riuso è sempre più sfacciato, tanto che arrivo a domandarmi se non voglia farsi scoprire. Ormai trascrive capitoli interi, con tanto di titolo. Ma con il mio saggio ho avuto un insperato riscontro positivo dalla sua università, la Ca’ Foscari. Il rettore non è più lo stesso di tre anni fa, quello che sosteneva di non poter far nulla; l’attuale mi ha risposto immediatamente quando gli ho inviato il mio materiale, assicurandomi che valuterà se avviare un’indagine. Vedremo».E l’assenza di altre reazioni, la sorprende?«Un po’ sì, anche se credo che lui e chi gli dà spazio contino sulla memoria corta dell’opinione pubblica».
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