La nebbia, prima inesistente, oggi è parte integrante del paesaggio e i venti, in passato mitigati dalle acque del lago, adesso spirano con forza e violenza bistrattando i pochi esemplari rimasti della vegetazione mediterranea. Arroccati sui monti della Vallelonga, da un lato, e su quelli del parco Velino-Sirente, dall’altro, i borghi che hanno saputo sopravvivere alle molte genti dominatrici della conca naturale. Ma quando il sole dirada la foschia, è l’alternarsi di colture e maggese, interrotte solo dalla stazione di comunicazioni Telespazio, a riempire lo sguardo. E, in altura, resti di fortezze e chiese nel verde che hanno indicato per secoli la via a viandanti e pastori della transumanza.Appare così l’altopiano del Fucino agli occhi dei forestieri che arrivano nel cuore dell’Abruzzo. Ora è un’immensa distesa di fertili campi, ma fino a due secoli fa ospitava il terzo bacino lacustre del Paese ed era meta di villeggiatura sin dai tempi dei romani. Pare che le sue limpide acque, per la presenza di un’alga rossa, in alcuni periodi dell’anno assumessero il colore della fucina, da cui deriverebbe il nome Fucino. Ma i centocinquanta chilometri quadrati di coltivazioni raccontano anche di una delle più imponenti opere d’ingegneria idraulica del passato. Già i romani, infatti, avevano avviato la prima regimazione del lago, ma fu solo nel 1878 che Alessandro Torlonia riuscì nel progetto. La bonifica sembrò però una lotta impari tra l’uomo e la natura: quindici anni e 20mila uomini. Un’impresa titanica, anche per i costi, che più volte portò il suo artefice a dire: «O io prosciugo il Fucino o il Fucino prosciuga me». Avezzano, Celano, Aielli, Cerchio, Pescina, Luco dei Marsi, Trasacco, Ortucchio. Intorno alla grande plaga bonificata non sono più di una decina gli insediamenti che dalle sponde alle vette vivevano, e vivono, dei frutti agricoli o tecnologici della conca. Crocevia di popoli e culture, le diverse ere oggi rendono questa terra un mosaico ricchissimo di arte sacra e archeologia, ma anche culla di una religiosità profonda. È in mezzo alla natura, tra Luco dei Marsi e Trasacco, difatti, nel santuario della Madonna di Candelecchia, cioè dell’acqua candida (una sorgente zampilla a cento metri dalla basilica), che la grande devozione mariana di questa gente viene custodita insieme alle più commoventi tradizioni. Circumnavigando la piana verso est, campeggia maestosa la fortezza cinquecentesca di Ortucchio, prima della bonifica spesso ridotta a un’isola, e alla sommità del paesino ancora i resti di quell’orto sacro italico di cui porta il nome. Quando si volge lo sguardo più a oriente, però, a catturare l’attenzione è la fastosa Marruvium (oggi San Benedetto). Capitale dei Marsi sulle rive del lago, e fino al 1580 sede vescovile, della sua passata grandezza conserva solo un anfiteatro di età augustea, due tombe di epoca romana insieme ai resti della cattedrale paleocristiana di Santa Sabina, distrutta dal terremoto del 1915. Proprio alle sue spalle, arroccato sui monti, il borgo natio di Ignazio Silone e del cardinale Giulio Mazzarino; poco più in là Aielli, palcoscenico del più noto romanzo dello scrittore abruzzese, Fontamara. «L’aspro territorio ha reso la gente avvezza alla fatica, come descrive il letterato di Pescina – ricorda il presidente del centro studi siloniani Maurizio Di Nicola – ma è anche un popolo legato alla sua tradizione religiosa, qui il culto di San Berardo dei Marsi è molto sentito». A custodire le spoglie del santo, l’imponente co-cattedrale della Marsica, la chiesa di Santa Maria delle Grazie, arricchita dagli affreschi di Teofilo Patini e da un’antica tela della natività di Maria. Ma è nella scritta
hic quiescunt marsorum pastores sul pavimento della basilica che questo luogo mostra tutto il suo valore spirituale. Tuttavia l’arte sacra è racchiusa soprattutto nel museo del più vasto ma spoglio castello Piccolomini di Celano, che dal limitare del monte San Vittorino domina l’intera conca. Tra i suoi cittadini di ieri il beato Tommaso da Celano, uno dei primi discepoli di San Francesco, considerato il probabile autore dell’inno
Dies irae. Qui il lago Fucino continua a far parlare di sé anche nell’insediamento palafitticolo Paludi (XVII-X sec a. C.), il più grande d’Abruzzo, che proprio per le caratteristiche fangose del terreno ha restituito manufatti in perfetto stato di conservazione. Tra cultura e storia, c’è spazio anche per l’economia, legata soprattutto all’agricoltura e al terziario, che ha il suo fulcro pulsante ad Avezzano. «La tradizione contadina ora è diventata coltura estensiva di ortaggi – spiega lo storico Giovanbattista Pitoni – l’ingegno di questa gente poi ha aiutato l’avvio del polo industriale elettronico. Ma la modernità non ha fermato neppure il rifiorire della tradizione dialettale e teatrale».