venerdì 25 febbraio 2022
Mimesis ripubblica il libro dell'attaccante di lotte del Perugia, "Calci e sputi e colpi di testa". Un pamphlet unico nel suo genere scritto da un raro pensatore con i piedi del pallone italiano.
Paolo Sollier, il primo e forse unico narratore (impegnato) cresciuto su un campo di calcio italiano

Paolo Sollier, il primo e forse unico narratore (impegnato) cresciuto su un campo di calcio italiano - Archivio

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Se Pasolini è stato il più grande Poeta (civile) del gol, Paolo Sollier è il primo e forse unico narratore (impegnato) cresciuto su un campo di calcio italiano. Era il 1976, quando l’attaccante di lotte del Perugia di Ilario Castagner e del presidente Franco D’Attoma, pubblicò calci sputi e colpi di testa (titolo originale in minuscolo, edito da Gammalibri). E a distanza di quasi mezzo secolo dalla prima edizione, il libro ora ripubblicato dall’attenta Mimesis (Pagine 118. Euro 12,00) rimbalza sulla scrivania di redazione. E lo rileggo in un fiato, come ai tempi del liceo, quando con immenso stupore feci la grande scoperta: un calciatore professionista tra uno sputo e un colpo di testa aveva trovato l’ispirazione per scrivere un libro, per giunta bello, appassionante, non banale (privo di tabellini e conteggio delle donne avute) e antiretorico. In contemporanea arriva anche il libro di Alessandro Gazzi. E nel confronto, l’unica cosa che posso dire con certezza è che tra Sollier e Gazzi si rintraccia tutta l’evoluzione della specie, rara, del “calciautore”. Letti entrambi, ma l’opera di Sollier rimane unica. Vuoi anche per il contesto culturale e politico in cui è stata scritta.

Uno stile alla Bukowski

Erano gli anni della contestazione giovanile – post Sessantotto –, della strategia della tensione, dello scontro di piazza tra comunisti e fascisti e della ricerca ossessiva di libertà, compresa quella sessuale. Ma calci e sputi e colpi di testa è un pamphlet unico anche nello stile. A rileggerlo attentamente, ricorda una narrativa a metà campo tra l’idealismo onirico di Osvaldo Soriano e il romanticismo carnale di Charles Bukowski. E forse Bukowski, involontariamente, è prevalente in Sollier, tant’è che in prefazione il papà presidente dei mister italiani, Renzaccio Ulivieri, consiglia di aggiornare il titolo con “Amore, calcio, sputi e colpi di testa”. Fatto sta, che un “calciautore” per un paio di stagioni, dal 1974 al ’76, si era insinuato nello spogliatoio del club umbro. «Come guardare le stelle da una riva di ortiche. Non resta che grattarsi», scrive l’occitano di Chiomonte, classe 1948, che con la stessa umiltà con cui sgobbava in campo, “centravanti di movimento” pronto a fare a sportellate con il terzinaccio di turno, non si è mai sentito scrittore. E del suo stile ha sempre precisato che era semplicemente lo «scrivere- parlato, in voga negli anni ’70». Ma la sua piccola rivoluzione è stata quella di alzare il livello culturale all’interno di un movimento calcistico fino ad allora popolato dai figli di un proletariato che è sparito, assieme alla piccola borghesia, contro la quale si scagliava, come sul pallone, il “Mao” degli stadi. Calci e sputi e colpi di testa è il primo e forse ultimo diario realizzato in presa diretta da un atleta ancora in gioco, consapevole che, tra le mille contraddizioni e le immancabili zone d’ombra la crescita di un sistema, complesso e complessato, come quello del calcio, passava da un salto di qualità di quello che l’anarchico romanziere, e calciofilo, Luciano Bianciardi definiva il «lavoro culturale».

I libri regalati ai compagni di spogliatoio

Per questo Sollier si nutriva, e si nutre ancora, di libri e ai tempi del Perugia li regalava, specie a Natale, ai compagni di squadra. Un dono a quelli con più affinità, come Walter Sabatini, nel tentativo di scollamento da una realtà fatta essenzialmente di superficie e disimpegno. Immaginate la scena del calciatore che, oscillante tra la cresima e la terza media come titolo di studio, interessi pari a zero, al di là del cinema come abitudine consolidata per ingannare il tempo nei mortali ritiri del sabato prepartita, a un certo punto si vedeva recapitare sulla panca dello spogliatoio i libri di Primo Levi, Cesare Pavese, Carlo Cassola o gli stranieri più amati da Sollier: Chatwin, Queneau, Márquez... «A Sabatini regalai Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. Walter lo apprezzò a tal punto che mi piace pensare che suo figlio l’abbia chiamato apposta Santiago, proprio come il protagonista del romanzo Cronaca di una morte annunciata dello stesso Márquez», confidò Sollier l’ultima volta che abbiamo discusso di calcio e letteratura. Perché al di là del pregiudizio offensivo, che purtroppo ancora resiste in questa “Repubblica fondata sul pallone” – bagnata dai mari fermi del decrepito gazzettismo e dell’iperconnessione alla paytv – si spera che ci sia ancora un barlume di pensiero, e che questo non sia un semplice pensare con i piedi.

Dalla cattolica "Mani Tese" al Mao degli stadi

Sollier ne è la riprova, con la sua esperienza che parte, 17enne a Torino, dall’impegno nell’associazione di matrice cattolica, “Mani tese”: «Eravamo un gruppo di giovani solidali che lavorava attivamente per prestare soccorso ai paesi del terzo mondo». Il ragazzo di Chiomonte che leggeva il Vangelo con la stessa sensibilità con cui studiava i Quaderni di Gramsci, ricorda nel libro che «l’ultimo capodanno che ho festeggiato è dei tempi di “Mani Tese”, quando girammo tutta la notte per le case a raccogliere carta e stracci per la nostra azienda agricola in Chubut ». Irriverente Sollier, provocatorio fino al limite dell’area della sopportazione, perfino dei suoi tifosi, ai quali negava l’autografo, in quanto atto inaccettabile di celebrazione del divo pallonaro quale rifiutava di essere, perché «piuttosto a quel tifoso dico vieni a farti una birra, parliamo». Un combattente sportivo, contro l’unico sport praticato, ieri come oggi, veramente da tutti: il tifo. Quello violento e politicizzato, «montanellico e fascista » che lo rese celebre e ingestibile, anche per il Perugia, quando sfidò la «squadra di Mussolini», la Lazio. Era il 22 febbraio del 1976, stadio Olimpico di Roma, Lazio-Perugia, Castagner sostituisce il suo attaccante pasionario fradicio di sudore e di fischi ricevuti dal primo minuto dai tifosi laziali che all’uscita dal campo lo beccano in coro: «Sollier boia!», e tutti in piedi a fare il saluto romano. Scene che da allora si sono ripetute cento, mille volte in quasi tutti gli stadi italiani: ieri contro il “rosso” Sollier, oggi contro il “nero”, ma per via del colore della pelle. Ma contro tutto questo, Paolo il caldo aveva già trovato la formula vincente: «Bisogna sempre far piovere, e non ripararsi mai. Odiare gli ombrelli mentali».

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