Ben Smith - cortesia dell’autore
Il Salone del Libro di quest’anno rende omaggio alla “Vita immaginaria”, che muove la vita creativa in tutte le sue forme, compresa quella del giornalismo. Ragionare sul libro, discuterne, riflettere sull’editoria, significa anche fare i conti con i cambiamenti che la società sta vivendo e sul modo in cui stiamo raccontando e imparando. Nei trent’anni di storia del giornalismo online è successo di tutto, ai giornali e ai lettori, al modo in cui ci informiamo e siamo raggiunti dalle notizie e da tutto quello che esce dai nostri smartphone. E così, a un paio di giorni dall’entrata in vigore dell’European Media Freedom Act, «nuova serie di norme – come annuncia la Commissione Ue – per proteggere l’indipendenza e il pluralismo dei media», riconoscendo che i giornalisti svolgono un ruolo essenziale per la democrazia, abbiamo intervistato Ben Smith, primo direttore di “BuzzFeed News” e oggi fondatore e direttore di “Semafor”, il sito di news di maggiore innovazione nel business giornalistico degli ultimi anni, capace di raccogliere oltre 30 milioni di dollari di investimenti. L’abbiamo fatto a partire da Traffic, La corsa ai clic e la trasformazione del giornalismo contemporaneo (pagine 416, euro 21,00), pubblicato da Altrecose, marchio editoriale nato dall’alleanza tra “Post” e Iperborea. Traffic è il racconto dell’età dell’innocenza creativa del giornalismo online, nonché di come internet abbia trasformato i media, fagocitando l’informazione con impatti sociali e politici. Al centro una contraddizione: da piattaforma di idee progressiste, la rete si è trasformata in strumento di campagne populiste, che Ben Smith racconterà anche al Salone del Libro venerdì 10 maggio.
Oggi un occhio allenato è ancora in grado di distinguere un testo o un’immagine realizzata con l’intelligenza artificiale. In futuro potrebbe essere più difficile. Qual è il confine?
Penso che le grandi aziende tecnologiche saranno molto aperte a un sistema di regole chiare che includa una forma di filigrana che ci permetta di vedere facilmente cosa è reale e cosa è artificiale. Ma altre app e altri attori non rispetteranno queste regole e credo che avremo bisogno di modi indipendenti per determinare la provenienza di un’immagine o un video. Questa è una grande opportunità per i media affidabili.
Esercizio di immaginazione: pensiamo all’effetto sulla società americana nel vedere l’ex presidente Trump in manette, se non fosse stato chiaro che si trattava di una simulazione.
In questo momento credo che la minaccia più grande non sia quella di essere ingannati da un’immagine o da un video – o più probabilmente da un audio – ma che queste nuove tecnologie creino un’atmosfera generale di incertezza. Mi preoccupa non tanto che saremo ripetutamente ingannati, quanto che dubiteremo di tutto ciò che vediamo. La risposta migliore è che i media affidabili siano molto chiari su come hanno ottenuto un video, lo verifichino con testimoni oculari e lo comunichino in modo molto trasparente al loro pubblico.
Il giornalista, nella nuova dimensione della comunicazione digitale, dovrebbe prestare maggiore attenzione ai suoi doveri: verifica delle fonti, continenza nel linguaggio, accuratezza della narrazione, rispetto della persona. Dove sta andando il giornalismo secondo lei?
L’abilità tradizionale del giornalista è trovare informazioni non ancora pubbliche e renderle pubbliche. Ma il modo in cui comunichiamo continua a cambiare e credo che i giornalisti di successo si trovino sempre più a loro agio con una connessione diretta con il pubblico, attraverso diversi media. Non sarà l’unico modo di fare giornalismo, ma credo che le persone in grado di comunicare direttamente per iscritto o in video, con accuratezza e trasparenza, abbiano abilità fondamentali.
Come possiamo ristabilire il rapporto fondamentale tra giornalismo, fiducia e comunità attraverso una nuova credibilità?
C’è stato uno spostamento a lungo termine del potere dalle istituzioni agli individui. I partiti politici, ad esempio, sono stati ampiamente sostituiti dai loro leader carismatici. Non sono sicuro che questo sia un bene per il giornalismo, ma è certamente una tendenza importante che i giornalisti e il giornalismo devono affrontare e credo che la risposta stia nel trovare il modo di allineare gli individui con un marchio di fiducia e di promuovere e puntare molto sulla reputazione di singoli giornalisti di fiducia.
Con l’avvento di internet c’è stato un tempo in cui il giornalismo sembrava essere incentrato solo sulle breaking news. Oggi, invece, sempre più redazioni ritornano al longform, sperimentando anche la cross-medialità.
Penso che il pubblico si stia ritirando dal caos dei social media, e che ci sia troppa offerta e poca domanda per le notizie incrementali. I lettori più sofisticati – e certamente il nostro pubblico di “Semafor” – sono affamati di contesto, di intelligenza e prospettive variegate per quanto riguarda le notizie attendibili. Credo che in questo momento ci sia un’enorme frammentazione nei media e quindi sono sicuro che ogni tipo di cosa andrà in direzioni diverse, ma credo che una di queste direzioni sia quella di conversazioni più ampie e ponderate.
Vorrei la sua opinione sul tema della libertà di stampa e sulle limitazioni al diritto di cronaca, sulla censura e sui continui attacchi e minacce ai giornalisti.
Si tratta di una tendenza globale, guidata da attori potenti che ritengono che la libertà dei media sia andata troppo oltre. Penso che ci siano aree – in particolare la privacy – in cui i giornalisti hanno dovuto modificare il loro approccio in base ai cambiamenti dell’opinione pubblica, ed è importante essere rispettosi dei valori culturali. Per esempio, penso sia ragionevole non usare i nomi completi delle persone, se poi una storia rimarrà per sempre su Google. Non credo che ci sia una soluzione facile alle minacce legali che incombono sul giornalismo, ma una importante è quella di trovare modelli di business sostenibili e solidi per il settore: le redazioni giornalistiche più esposte alle minacce sono quelle che stanno finendo i soldi.
Il pluralismo è ancora possibile oggi?
La grande tendenza dei media in questo momento è la frammentazione, che è una sorta di pluralismo. Dai podcast alle newsletter, stanno sorgendo molte nuove voci che raccontano storie molto diverse a un pubblico relativamente piccolo. È meno chiaro se queste voci sosterranno un più ampio credo sociale nel pluralismo, piuttosto che solo tribù in lotta tra loro.
Carta contro digitale e televisione contro web. Che ne sarà della carta e della TV? Saranno completamente superate in futuro?
La carta si sta trasformando in una sorta di prodotto di nicchia e di lusso. FT Weekend sta prosperando, così come alcune piccole e belle riviste. Ma non è il modo più efficace – o più ecologico! – per trasmettere informazioni, e credo che continuerà a ridursi come mezzo di comunicazione di massa. La TV è diversa. Gli spettatori consumano sempre più spesso video di tutti i tipi – dagli spettacoli di alta produzione ai cortometraggi video – sugli stessi dispositivi e canali, e gli spettacoli televisivi più popolari troveranno ovviamente il modo di prosperare. Ma mentre la distribuzione dei video è migliore che mai, il modello economico della televisione lineare sta crollando e per le grandi reti televisive come la CNN, per esempio, sarà una sfida enorme sopravvivere con meno soldi.
Il web ha dato l’illusione dell'informazione libera. Forse, oggi la sfida è far passare il messaggio che l’informazione di qualità va pagata. Come?
Non c’è un solo modo. Le aziende giornalistiche sane si sono sempre basate su diverse forme di entrate, tra cui la pubblicità e gli abbonamenti, e credo che continueranno a farlo anche in futuro.
Un altro confine importante oggi è quello tra marketing, social media e giornalismo. Ci sono situazioni ibride che talvolta si sovrappongono al giornalismo. Come si conciliano i doveri etici e deontologici del giornalista con la necessità di stare sul mercato?
Il giornalismo ha sempre avuto bisogno di comunicare con il pubblico, e i giornalisti – o i loro colleghi di redazione – devono abbracciare tutti i modi in cui possono comunicare, senza vergognarsi di promuovere il lavoro di cui sono orgogliosi. I social media sono un modo per farlo, le connessioni dirette via e-mail un altro, la grande scrittura sul proprio sito un altro modo ancora.
Cosa pensa del giornalismo partecipativo?
L’idea del “citizen journalism” è stata un prodotto dell’era dei blog, quando alcune persone hanno trovato il modo di esprimersi direttamente online, ma era ancora di nicchia. Ora tutti hanno la capacità di esprimersi in pubblico e il “giornalismo”, se vogliamo chiamarlo così, fa parte dell’essere persona nel 2024. Quindi non credo che esista una categoria specifica di citizen journalist. C’è una differenza tra dilettanti e professionisti, ma credo che spesso, quando i dilettanti diventano abbastanza bravi, trovino il modo di farsi pagare e diventare professionisti.
Pensa che il linguaggio del giornalismo stia cambiando? Che ci si concentri maggiormente su un linguaggio inclusivo, ad esempio sulla disabilità o sull’uguaglianza di genere, oppure c'è ancora lavoro da fare?
Negli Stati Uniti il linguaggio del giornalismo è cambiato molto verso l’inclusività. In alcuni casi, però, il linguaggio dei giornalisti con un’istruzione universitaria andava ben oltre quello che i lettori potevano capire, con termini come cisgender e latinx, e ora il settore si sta allontanando da questi elementi per passare a un linguaggio più familiare e tradizionale.
Che consiglio darebbe ai giovani che vogliono iniziare a fare i giornalisti oggi?
Cercate di fare scoop.