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Quello del dialogo e del confronto fra scienza e fede, o meglio, fra scienza e metafisica, è ormai considerato dalla grande maggioranza della comunità scientifica non più un problema ma una vera e propria opportunità di fronte alla sempre più evidente incapacità dell’uomo di fornire risposta agli infiniti perché che pone l’Universo. Come contributo al dibattito anticipiamo un estratto del saggio dell’astrofisico gesuita Paolo Beltrame, Forse Dio gioca a dadi?, su fede e meccanica quantistica, che sarà sul numero in uscita di “Civiltà Cattolica”.
Una volta Albert Einstein, rivolgendosi agli scienziati che allora si occupavano della “nuova fisica”, disse: «Il problema quantistico è così straordinariamente importante e difficile che dovrebbe essere all’attenzione di tutti». La “meccanica quantistica” è attualmente la teoria fisica più completa per descrivere la materia, la radiazione e le reciproche interazioni, specialmente in condizioni in cui le precedenti teorie cosiddette “classiche” risultano inadeguate, ossia nei fenomeni di lunghezza o energia atomica e subatomica. La frase di Einstein vale per tutti, perché la fisica quantistica, oltre ad avere un grande impatto tecnologico e conseguentemente sociale, ha importantissime implicazioni nella visione filosofica della realtà [...].
La questione dei fondamenti della meccanica quantistica rimane ancora aperta e appassiona fisici e filosofi della scienza. Ci sono molte pubblicazioni in merito e varie posizioni che si differenziano, anche notevolmente. A un estremo, abbiamo il “realismo”, paladino del fatto che ogni affermazione sul mondo fisico ha valore oggettivo e reale. Le cose sono lì; al limite, il problema è nostro che non riusciamo a conoscerle in maniera completa ed esatta; ma i modelli che abbiamo costruito nel corso dei secoli ci informano realmente - in maniera più o meno accurata sul mondo come esso veramente è. A questa visione fanno capo la meccanica classica e anche le concezioni filosofiche che considerano la conoscenza come “corrispondenza tra realtà e intelletto”.
All’estremo opposto, troviamo lo “strumentalismo” esasperato, e a volte anti-realista. Secondo tale interpretazione le leggi della fisica e la nostra descrizione del mondo hanno un valore semplicemente “pratico”, cioè sono meri strumenti utili per spiegare e prevedere i fenomeni (o meglio, la loro probabilità di concretizzarsi), ma che essenzialmente non rappresentano affatto la realtà, della quale non si può dire nulla (sempre ammesso che esista). Questa posizione, abbastanza in voga tra i fisici, è stata sostenuta in una certa misura anche dalla scuola di Copenaghen.
Qui però non intendiamo entrare in tale dibattito. La visione che proponiamo è quella che potrebbe essere chiamata “conoscenza orizzontale” della meccanica quantistica e della fisica in generale. “Orizzontale” in questo caso si riferisce all’orizzonte, la linea di demarcazione tra la terra e il cielo.
Con un breve excursus letterario, possiamo riferirci alla “siepe” e all’“orizzonte” di Giacomo Leopardi. Nell’Infinito è la siepe che esclude la visione di tanta parte dell’orizzonte. Per la concezione classica, essa rappresenta ciò che possiamo vedere e anche i limiti della nostra conoscenza, che è imperfetta per quello che riguarda i dati iniziali e le leggi della natura, e tale imperfezione ci impedisce di vedere l’orizzonte. Quest’ultimo è lì, ma noi non possiamo averne esperienza, a causa della siepe. La concezione quantistica, invece, riesce ad arrivare all’orizzonte stesso, che però è un limite invalicabile e che racchiude tutto il visibile.
È un confine naturale, inevitabile e insormontabile, che nasconde ciò che è al di là. Il nostro affanno conoscitivo è racchiuso all’interno di tale orizzonte, in quanto la descrizione dei fenomeni fisici è esclusivamente probabilistica, per la “relazione d’indeterminazione” e per il fatto che la realtà fisica conoscibile è costituita soltanto da elementi “osservabili” (e non dagli “oggetti” stessi): i fenomeni, infatti, esistono in quanto osservati e in quanto entrano in relazione con l’apparato di misurazione.
Circa i limiti della conoscenza scientifica, siamo consapevoli di non dire nulla di nuovo. Soprattutto le discipline teologiche e filosofiche considerano la conoscenza scientifica tanto utile quanto limitata e incompleta. Qui però vogliamo far notare due cose. La prima è che sono gli scienziati stessi del XXI secolo a riconoscere esplicitamente i limiti del sapere umano. I fisici di oggi scorgono l’orizzonte e intuiscono che esso è necessario per la scienza, come l’orizzonte geografico è indispensabile per il Pianeta. Questo limite è concepito dall’interno, è la scienza stessa a descriverlo, e non imposto dall’esterno da autorità di natura politica o religiosa, che talvolta non comprendono le dinamiche della ricerca scientifica.
La seconda cosa consiste nel riconoscere che l’orizzonte può essere certamente spostato, ampliato, esteso - e come scienziati siamo invitati a farlo - ma la linea di demarcazione della nostra stessa conoscenza è inevitabile e costituisce il fondamento del nostro sapere. Inoltre, il limite suppone la presenza di qualcosa che è al di là del campo visivo. Questo non coincide necessariamente con l’accettazione di un Dio personale, ma sarebbe abbastanza ingiustificato irrigidirsi caparbiamente sull’idea che oltre «l’ultimo orizzonte escluso allo sguardo» non ci sia nulla.
Come abbiamo detto precedentemente, «i fenomeni esistono in quanto osservati e in quanto entrano in relazione con l’apparato di misurazione». Questa frase, attribuita a Bohr, viene riportata da Rovelli nel suo libro Helgoland. Siamo d’accordo con questa idea, sia da un punto di vista epistemologico (conoscitivo), ontologico (descrittivo del reale), sia da un punto di vista teologico. L’impossibilità di distinguere il fenomeno dall’osservazione (sperimentale o matematica) e il fatto che le proprietà delle particelle si manifestano solo quando entrano in relazione con altre entità sembrano eliminare l’esistenza di qualche cosa di oggettivo, che sia autonomo o individuale. Con buona pace di Leibniz, il fondamento del mondo non è costituito da monadi indipendenti e isolate, bensì dalla relazione: la realtà stessa è relazionale.
La percezione teologica che vi intravediamo si discosta però da quella di Rovelli, che vede la relazione come una negazione della metafisica e una porta aperta a concezioni vicine a quelle del pensiero orientale. Va tenuto presente che il pensiero teologico cristiano scorge proprio nella Trinità l’attuazione stessa della relazione. La Trinità è relazione in se stessa, relazione con l’universo, e relazione con tutti gli esseri viventi, senzienti o meno. Questa concezione non dev’essere vista in contrapposizione alla precedente. Non lo è, perché «la fisica informa, ma non obbliga né imprigiona», e quindi pluralità di interpretazioni possono benissimo coesistere. Inoltre, il mistero dell’incarnazione ci invita a percepire la presenza dello Spirito in molteplici realtà, invitandoci ad ampliare l’immagine della verità e a cogliere le sue multiformi manifestazioni, anche se presenti in posizioni che ci appaiono distanti.
La meccanica quantistica apre a una concezione relazionale e dinamica della realtà. La conoscenza, seria e attenta, della fisica contemporanea ci invita quindi a un dialogo teologico ancora più ricco e variegato di quello a cui siamo abituati.