Emanuele Salce in scena con “Mumble Mumble” - Staff
Ti siedi in platea al Teatro Martinitt e ascolti la voce calda e l’impostazione aulica, quanto ironica di Emanuele Salce in Mumble Mumble. Spettacolo che lo vede in scena (fino al 1° novembre a Milano) con l’amico fraterno Paolo Giommarelli. «Paolo lo chiamai proponendogli una serata unica e invece sono dieci anni che viaggiamo per tutti i teatri italiani con questo spettacolo, con o senza Covid», dice con quel “timbro bifronte”: l’ironia sferzante del padre Luciano Salce e l’inconfondibile recitato scespiriano del «patrigno», il “Mattatore” Vittorio Gassman, marito di sua madre, Diletta D’Andrea. Per questo, il sottotitolo di Mumble Mumble è Ovvero confessioni di un orfano d’arte.
Una doppia “orfanezza” artistica con tanto di duplice dizione ereditata.
E di questo, anche nello spettacolo, dichiaro subito l’handicap – sorride –. Del primo, L’uomo dalla bocca storta (titolo del docufilm su Luciano Salce, riproposto al Martinitt) credo di aver ricevuto in dono l’ironia e il gusto di ridere, specialmente di me stesso... Dell’altro, protagonista de La Lunga strada (altro docufilm sulla figura di Vittorio Gassman) quello «più grosso» per capirci, ho preso – pausa interrotta da un sorriso – un sacco di schiaffi... Ad esser seri e sinceri, tutto quello che ho imparato non è per trasmissione diretta e orale da parte dei due, in quanto entrambi erano uniti da un scarsa vocazione genitoriale. Sia Luciano che Vittorio partivano dall’assioma: «I bambini non possiedono il dono della conversazione interessante».
Due grandi amici, uniti da sempre e divisi a un certo punto dalla stessa donna, Diletta D’Andrea.
Una ferita per mio padre, che ha ricucito brillantemente insieme a Vittorio, con tutti gli strumenti di cui erano dotati. Agli inizi della storia tra mia madre e Gassman sicuramente non si sono parlati, ma sono testimone indiretto di una tregua disarmata: anche nel periodo più buio non si sono mai insultati né menati. E questo è già molto per due personalità forti come le loro.
Famiglia allargata, ma con una civiltà di fondo che emerge anche dal suo testo teatrale.
Diciamo che la governante era la sana follia che strideva con l’idea che emanavamo della “dimora delle stelle”. Ho vissuto in una gabbia che dall’esterno appariva dorata, ma da dentro le sbarre erano di ferro comune, anche un po’ arrugginite, come quelle di tante altre famiglie.
Ma nessuno dei due “mostri” attoriali l’ha mai incoraggiata a fare questo mestiere?
Ma no, anche perché io sono stato un “caso umano” che si è risolto solo intorno ai 40 anni. Ho bruciato precocemente tutte le tappe per quanto attiene alle patologie, alle problematiche psicoanalitiche, ma poi per fortuna ho trovato il bandolo della matassa. E questo grazie al teatro, che ho sfruttato appieno come terapia.
E il “teatroterapia” ha funzionato.
Molto, anche se recitare è stata una cura choc. Salire su un palco mi ha posto a un bivio in cui dovevo scegliere: vivere o morire, provare ad esserci o sparire. Non possedendo neppure il talento di quelli che la vita se la raccontano in modo tale da alleggerirla – e prima o poi cadono in depressione – ho preferito affrontare tutti i rischi in un’unica soluzione. Così ora posso navigare nel mio piccolo mare, consapevole di ciò che sono.
Lo spettacolo è incentrato sui due funerali: quello di papà Salce, avvenuto nel 1989 e quello del “patrigno” Gassman, nel 2000.
Un decennio passa tra l’uno e l’altro evento luttuoso, in cui, oltre alle mie insicurezze, racconto l’Italia e lo faccio attraverso le emozioni, contrastanti, provate durante quelle due cerimonie funebri. Quando ripenso a quelle due giornate provo una grande tenerezza. Per Luciano, perché è stato un padre che ho perso troppo presto, e così non ci siamo detti quasi niente... Per Vittorio, perché solo dopo un quarto di secolo ci siamo riavvicinati. Nell’ultimo periodo mi chiese di stargli vicino, anche sul lavoro. Mi disse «dammi una mano, fammi da assistente» e, nel 1996, fu lui a gettarmi in scena nello spettacolo Anima e corpo - Talk Show d’addio.
Finito lo show, il vuoto che le hanno lasciato ora lo riempie andando in scena tutte le sere.
Comunicare il vuoto della mia perdita, nel tempo ha creato uno scambio di emozioni condivise con il pubblico che, una volta finito lo spettacolo, mi racconta e mi confida delle sue “perdite”.
Sulla sua carta d’identità si legge: Emanuele Salce, nato a Londra, il 7 agosto 1966. Come mai questi natali londinesi?
Mio padre per sposare Diletta D’Andrea stava attendendo l’annullamento del precedente matrimonio dalla Sacra Rota e quindi per riconoscermi e farmi nascere senza i problemi legali che avrebbe avuto nell’Italia d’allora gli fu consigliato come unico escamotage di far partorire mia madre a Londra.
Primo mistero di famiglia svelato, sciogliamo il secondo: come mai Luciano Salce aveva la bocca storta?
Per via di un incidente d’auto che ebbe a 13 anni mentre veniva riaccompagnato in collegio. Alla guida c’era mio nonno, un padre duro che lo aveva “rifiutato”: lo riteneva responsabile della morte della madre, mia nonna morì di parto dandolo alla luce. La gran botta sul cruscotto di ferro gli costò un’operazione delicata con l’innesto di una mandibola d’oro che poi perse in maniera violentissima... gliela scipparono i nazisti.
Vuol dire rubata durante la prigionia di Salce nel lager dello Stalag?
Sì, quando venne internato i suoi aguzzini si accorsero di quel “bene prezioso” che aveva in bocca e gliel’asportarono. Un grande dolore fisico e una ferita morale sempre aperta. Nel suo diario, ovunque fitto di appunti, alle pagine dedicate agli anni 1943-’45 annotava scarno: «Due anni difficili». Quel periodo poi lo ha elaborato cinematograficamente girando Il Federale in cui come ruolo si diede quello del gerarca nazista.
Da qui le accuse del Salce fascista?
Per anni ho dovuto lottare esponendomi prima sui media e poi sui social per difenderlo da quei neofascisti che lo avevano incasellato alla voce «Repubblichino». Luciano Salce è stato un uomo libero, un artista completo e anche un aspirante poeta – sorride – . Tenne un carteggio con Eugenio Montale che puntualmente gli rispondeva... stroncando le sue poesie.
Un poetico sognatore Salce e anche un grande talent scout.
È stato l’animatore del Teatro dei Gobbi con Bonucci, Caprioli e Franca Valeri. Ha fatto debuttare Ennio Morricone nel cinema: per Il Federale compose la sua prima colonna sonora. E poi per primo ha sostenuto Paolo Villaggio, Catherine Spaak, Mariangela Melato... Oggi i giovani di lui al massimo sanno che è stato il regista di Fantozzi, ma del resto accade lo stesso con Vittorio Gassman. La gente dice: «Ah sì, il nonno di Leo, il cantante che ha vinto Sanremo Giovani. Oppure, come no: non è il padre di Alessandro Gassmann?». Mi arrendo, viviamo in un Paese senza memoria...
Ha citato Alessandro, uno dei suoi due fratellastri con Jacopo Gassmann, che però nello spettacolo non vengono evocati.
Accenno solo a un viaggio in Australia assieme a Jacopo. Ci vogliamo bene e ci stimiamo. Vittorio era il perno della nostra unione, riusciva sempre a metterci tutti assieme attorno a un tavolo, ma morto lui ci siamo involontariamente disgregati. Li seguo, Alessandro si è giovato di un padre ancora attivo che dopo dieci anni di apprendistato lo ha “messo in arte”, nonostante, forse, non avesse una predisposizione naturale per questo mestiere, come il sottoscritto del resto. Jacopo non ha avuto questo privilegio, quando Vittorio è morto lui aveva vent’anni, ma il teatro ora è la sua vita.
Anche per lei adesso il teatro è vitale e il suo modo di recitare, per eleganza e suggestioni, rimanda a un terzo “mostro”, Ugo Tognazzi.
Il teatro lo preferisco di gran lunga al cinema o alla fiction tv: questi sono spazi dove non c’è tempo per lavorare e dove spesso divento ostaggio del solito ruolo. Quanto a Tognazzi, beh, ci sono già i suoi figli che devono fare i conti con il monumento. In un secolo abietto come questo, di attori come Ugo ne nascono uno ogni cento anni. Del resto nessuno dei grandi del nostro cinema, Tognazzi, Sordi, Gassman, Mastroianni Fellini... è figlio d’arte. Sono convinto che il figlio del macellaio abbia più chance di noi di diventare un grande attore o un grande regista. E comunque, se gli andasse male con il cinema o il teatro, almeno erediterebbe la macelleria.