martedì 15 dicembre 2015
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«Quand’anche fosse possibile far denari con la bacchetta magica, farei ugualmente il banchiere». Parola di Cosimo de’ Medici, potentissimo creditore del Papa nella Repubblica fiorentina del Quattrocento. Figura chiave del suo tempo ma quanto mai attuale, un po’ come Marco Licinio Crasso, l’inventore della speculazione sulle ricostruzioni di immobili (dati precedentemente alle fiamme dai suoi schiavi), sommo oligarca che seppe sfruttare l’abbinamento tra ricchezza e politica diventando uno dei personaggi più potenti della Roma repubblicana. La cronaca dei nostri giorni – controversi salvataggi di banche e scandali finanziari, sistemi consolidati di corruzione all’ombra della Cosa pubblica ma anche fulgidi esempi di supreme ricchezze passate indenni attraverso gli anni bui della crisi – ci induce a volte a pensare di vivere in un’epoca di decadenza e diseguaglianza senza precedenti. In realtà, non è così. Partendo dall’antica Roma e attraversando duemila anni di storia, ci accorgiamo che i conquistadores o i grandi mercanti europei della Compagnia delle Indie hanno molto in comune con gli oligarchi della Russia e della Cina di oggi, o con le élite di Wall Street. «Per ogni Roman Abramovic, Bill Gates e sceicco Mohammed c’è un Alfred Krupp e un Andrew Carnegie. I super-ricchi del ventunesimo secolo non sono una stravaganza della storia. Possono ringraziare i predecessori per le lezioni che hanno loro trasmesso». A sostenerlo è il giornalista britannico John Kampfner nella sua Storia dei ricchi. Dagli schiavi ai super yacht, duemila anni di ineguaglianza, pubblicata in Italia da Feltrinelli (pp. 478, euro 25, traduzione di B. Amato). Un’opera rigorosa e dettagliata quanto gustosa, in cui Kampfner, autorevole firma politica di “Guardian”, “Independent” e “Financial Times”, già direttore del “New Statesman”, passa in rassegna figure emblematiche di super ricchi della storia, imbattendosi in similitudini spesso sorprendenti. Che cos’hanno in comune i magnati di ogni tempo? «Che siano arrivati al successo con mezzi leciti o illeciti, con l’attività imprenditoriale, l’appropriazione o le eredità, i super ricchi si somigliano nella psicologia e nel comportamento. Sono ambiziosi e ultra competitivi tra di loro. Investono energie, spregiudicatezza e a volte (non necessariamente!) talento per fare soldi, ma questo non basta: indispensabile è infatti lo status, quello che un tempo era garantito dalle proprietà fondiarie o dalla disponibilità di schiavi e che oggi è rappresentato dai mega yacht o dai club finanziari a cui si ha accesso». Anche il modo in cui si spende il denaro conta… «Esatto. Se Crasso fondò un esercito, nell’America dell’Ottocento i “baroni rapinatori” sostenevano l’istruzione e le arti, mentre all’interno del mondo musulmano tradizionalmente si finanziano madrasse o si compiono sontuosi pellegrinaggi alla Mecca, come quello leggendario del re del Mali Mansa Musa nel 1324. La cosa più importante, soprattutto per quei ricchi che provengono da umili origini o che hanno fatto fortuna in modo discutibile, è assicurarsi una reputazione limpida anche dopo la propria morte». Quindi questi super ricchi hanno anche un’influenza positiva sulla società? O è un effetto illusorio? «Presumo che la risposta dipenda dalla propria visione politica. Quel che è certo – e interessante – è che essi sono convinti di sì, fondamentalmente perché allontanano i critici e si circondano di per- sone fedeli, isolandosi di fatto dal mondo reale. Nel libro racconto di come i banchieri fiorentini fossero convinti di compiere opere grandiose e che rimanessero scioccati quando si accorgevano che la gente aveva un’altra opinione». I cosiddetti 'geeks', i maghi dell’informatica della Silicon Valley, sono spesso percepiti come miliardari buoni: giovani geniali che sono riusciti a farsi da sé. «Il recente annuncio di Mark Zuckerberg, che sarebbe pronto a devolvere in beneficenza quasi tutto il suo patrimonio, ha fatto scalpore. Personalmente penso che questi guru, se vogliono fare del bene alla società, dovrebbero cominciare a pagare le tasse sui loro beni… Ma trovo interessante la loro psicologia. Figure come Bill Gates sono genuinamente convinte che, in virtù della propria intelligenza e visione, saranno in grado di spendere il loro denaro per cause benefiche meglio di come potrebbe fare qualunque governo». La categoria dei banchieri, invece, è diventata il capro espiatorio del nostro tempo. Perché? «Dopo il crac del 2008, i banchieri sono stati ritenuti responsabili di aver portato l’economia occidentale sull’orlo della distruzione, e sono diventati l’immagine della crescente disuguaglianza. In realtà, non sono stati abili nell’opera di “riciclaggio della reputazione” in cui furono maestri loro predecessori, come lo stesso Cosimo de’ Medici o più recentemente Carnegie o Rockefeller. La storia dimostra che non importa come fai i soldi, ma come riesci a ripulire la reputazione una volta che sei arrivato. In questo, gli oligarchi russi o cinesi, che oggi presenziano ai Forum di Davos, sono stati più abili». Molti si aspettavano che la crisi avrebbe cambiato certi meccanismi, ma né la politica né i movimenti dal basso come Occupy sono riusciti ad incidere: perché? «Nella recessione, i super ricchi se la sono cavata meglio che mai. Mentre la gente perdeva il lavoro e quindi smetteva di pagare le tasse, la quota di tutta l’imposta sul reddito pagata dai più abbienti cresceva, e con essa la dipendenza dei governi dalla loro “generosità”… Sorprendentemente, in questi anni la voce più persuasiva a favore del cambiamento è stata quella di Papa Francesco, con i suoi messaggi sulla povertà e il “capitalismo senza freni”. Ma la mia impressione è che, finché la classe media globale si sentirà tutto sommato al sicuro, gli appelli a rivoluzionare il sistema faticheranno ad essere accolti».
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