Riccardo Muti sul podio dei Wiener Philharmoniker - Wiener Philharmoniker / Terry Linke
«Eh sì, l’anno prossimo tocca ancora a me». Riccardo Muti guarda le montagne. «Mi piace iniziare l’anno così. Nel silenzio delle cime. Finché ci sarà ancora possibile guardarle le montagne». L’anno prossimo, però, il 1 gennaio 2025, il maestro non sarà davanti al Cristallo e alle Cinque Torri. «Sarò a Vienna, sul podio del Musikverein. E sarà la mia settima volta a Capodanno… e forse anche l’ultima». Ieri, con ancora nell’aria le note della Marcia di Radetzky diretta da Christian Thielemann, i Wiener Philarmoniker hanno annunciato che sul podio del Concerto di Capodanno 2025, il tradizionale Neujahrskonzert sulle note dei valzer della famiglia Strauss, ci sarà Riccardo Muti. «Mi fa particolarmente piacere, dirigo negli anni giubilari, il 2000, il 2025… la prima volta al Neujahrskonzert fu nel 1993 dopo un rapporto iniziato nel 1971 a Salisburgo: insieme abbiamo fatto più di cinquecento concerti e nel 2011 i Filarmonici mi hanno nominato membro onorario dell’orchestra» racconta Muti, quasi commosso dalle parole scelte dal presidente dei Wiener, il violinista Daniel Froschauer, per l’annuncio: «Riccardo Muti ricopre un ruolo eccezionale nella storia dei Wiener da oltre cinquant’anni. Con il suo lavoro ha plasmato in modo unico il repertorio e il suono della nostra orchestra». E il 2025 sarà l’occasione per celebrare i duecento anni della nascita di Johann Strauss. «E – sorride il maestro – non può non fare un certo effetto sapere che i Wiener per questo anniversario abbiano scelto un direttore italiano».
Ma quello di Johann Strauss non è l’unico anniversario che i Wiener celebrano con lei, maestro Muti.
«Il prossimo 7 maggio a Vienna dirigerò la Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven per ricordare i duecento anni dalla prima esecuzione della partitura mentre in estate, al Festival di Salisburgo, nel tradizionale concerto di Ferragosto, avrò sul leggio l’Ottava sinfonia di Anton Bruckner, compositore del quale si celebrano i duecento anni della nascita. Nel 2024, l’11 maggio, con i Wiener inaugureremo il Ravenna festival, mentre prima, a fine gennaio, farò tappa a Torino, Milano e Roma con la Chicago Symphony Orchestra. Strauss, Richard questa volta, Prokof’ev, Stravinskij, Ljadov, me li sono portati in montagna e li sto riguardando».
Oggi la musica classica, ma quale era la musica del suo Natale quando era bambino?
«A Molfetta la musica che annunciava il Natale era quella della Santa Allegrezza, una cantica che veniva intonata da gruppi di persone che bussavano alla porta chiedendo la carità o qualcosa da mangiare. Un testo criptico, ma affascinante nel suo trasmettere il mistero. Cantar io voglio la Santa Allegrezza, di Dio bellezza a maggior dignità. S’è incarnato in la Vergine Pia, lasciando a Maria la Verginità. Nel 1955, avevo quattordici anni, a Molfetta ci fu un concorso per trovare i migliori cantori della Santa Allegrezza. Formai un gruppo con alcuni coetanei, io suonavo il violino, un amico un contrabbasso a tre corde che avevamo trovato abbandonato nella tabaccheria che stava sotto casa, c’erano poi una fisarmonica e una chitarra. Vincemmo il primo premio. E quel trofeo, la prima cosa che ho vinto nella mia vita, lo conservo ancora gelosamente, accanto alle più alte onorificenze ricevute da Presidenti della Repubblica, Papi e imperatori».
Che Natale era quello del piccolo Riccardo a Molfetta?
«Quando ero piccolo a Natale si sentiva davvero il profumo dei mandarini per la strada mentre oggi, facciamoci caso, odori e profumi sono spariti dalle nostre città. Non c’erano le luminarie che illuminavano a giorno le strade, ma c’era il senso della notte che scendeva e avvolgeva il mondo di mistero e sacralità. Non c’era il riscaldamento nelle case e noi, cinque figli, mamma e papà, ci raccoglievamo intorno al braciere per scaldarci – ricordo ancora i geloni alle dita. Si sentiva il profumo delle pietanze natalizie che la mamma preparava sul braciere e sulla stufa, perché il gas arrivò anni dopo. A dirlo oggi mi sembra qualcosa della preistoria, ma era così. Poi nelle chiese si sentiva il suono dell’organo con il prete che celebrava in latino dando le spalle ai fedeli. C’era un senso di misticismo e le chiese erano affollate. Oggi mi mette molta tristezza vedere le chiese di Ravenna, la città dove vivo, mezze vuote con le parrocchie accorpate per mancanza di preti. Quando ero ragazzo nel seminario di Molfetta c’erano decine e decine di seminaristi – il mio primo concerto lo suonai lì, alla presenza del rettore, Corrado Ursi, che poi diventò arcivescovo di Napoli, e del futuro don Tonino Bello, un sacerdote che sapeva calare nella modernità il Vangelo. Ieri decine di seminaristi, mentre oggi le vocazioni mancano. E quando parlo di vocazione non intendo solo quella sacerdotale, ma la vocazione verso la spiritualità. Lo dico da uomo normale, che vive di musica e vive nel mondo».
A proposito, il mondo è lacerato da guerre, in Ucraina, in Medioriente, paesi dove lei ha portato la musica con Le vie dell’amicizia. Come vive questi momenti?
«Con enorme preoccupazione. Il mondo è in fiamme e le fiamme nascono anche da incomprensioni, da scontri di religione che non dovrebbero esistere perché le fedi dovrebbero spingere le persone alla fratellanza. Sembra di assistere a una corsa folle verso la distruzione, il mondo sembra impazzito, si spendono soldi per le armi e ci sono bambini che muoiono di fame, di freddo e a causa delle bombe. Più lo guardo e più mi sembra davvero che il mondo sia quell’atomo opaco del male come diceva Giovanni Pascoli».
C’è speranza?
«Certo. E la vedo nella figura di Cristo, una figura di una portata rivoluzionaria anche solo guardandola storicamente, il suo Discorso della montagna andrebbe letto ogni giorno, che si creda o no, perché ha un contenuto altissimo, che dovrebbe costituire le fondamenta del vivere insieme. Così come un testo fondamentale, in un momento in cui la crisi climatica incombe sul futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti, è il Cantico delle creature di san Francesco».
La musica può offrirci una speranza?
«La musica aiuta a costruire una strada per un futuro diverso, educa alla bellezza e all’armonia. Suonare insieme è una scuola fondamentale per imparare le regole del vivere civile. Per questo non mi stanco di ripetere a tutti i governi l’importanza di promuoverla e sostenerla».
E per lei cos’è la musica?
«Mettiamola così, è croce e delizia dall’età di otto anni, da quando mi misero in mano un violino. Papà era medico con una bellissima voce di tenore e voleva che noi cinque figli studiassimo musica, non per farne la nostra professione, ma per un arricchimento spirituale e culturale personale. Di certo papà non immaginava che uno di noi avrebbe fatto diventare questa passione una professione. In casa mancava un avvocato, avrei potuto esserlo io, dato che i miei fratelli sono uno medico, uno economista e due ingegneri. All’inizio detestavo il violino perché ogni giorno dovevo fare esercizi e dalla finestra vedevo i miei amici che per strada giocavano a pallone. A scuola andavo benissimo nelle materie letterarie mentre in matematica andavo malissimo e ancora oggi ho una specie di rigetto non per poco rispetto verso i matematici, ma perché era una materia a me davvero ostica. Quando mi dicono che la matematica ha a che fare strettamente con la musica un po’ mi arrabbio perché la matematica è precisione, mentre la musica va oltre, scava nel mistero. Ce lo ha insegnato con le sue gradi lezioni musicali papa Benedetto XVI…».
… che ci lasciava un anno fa, il 31 dicembre 2022.
«Ho suonato diverse volte per lui in Vaticano. Ma il ricordo più vivo che ho di lui non è legato a un concerto. Nel 2019, poco prima che scoppiasse la pandemia di Covid, Benedetto XVI mi fece chiamare perché voleva vedermi, stava leggendo il mio libro L’infinito tra le note e voleva parlare con me. Mi fece venire a prendere e con mia moglie Cristina fummo ricevuto nel monastero Mater Ecclesiae in Vaticano, dove si era ritirato. Un lungo colloquio in una stanza semplicissima, spoglia, il Papa emerito su una sedia. Parlammo di Mozart e quando venne il momento di salutarci mi fissò con i suoi occhi profondissimi. Capii che sarebbe stata l’ultima volta in cui ci saremmo visti e mi venne in mente un passaggio del duetto finale del Don Carlo di Verdi, quando l’Infante ed Elisabetta si promettono: Ma lassù ci vedremo in un mondo migliore. Mi commuovo ancora a pensarci. Così come mi commuove il ricordo di un altro papa, Paolo VI».
Fu lui a istituire la Giornata mondiale della pace, che si celebra ogni 1 gennaio.
«Una grande lezione di Montini che conobbi quando era arcivescovo di Milano e io allievo del Conservatorio. Dopo che fu eletto pontefice andammo a trovarlo in Vaticano con l’orchestra e il coro degli allievi del Conservatorio: toccò a me dirigere lo Stabat Mater di Scarlatti e il Magnificat di Vivaldi, mentre nel coro cantava una ragazza, Cristina, che poi sarebbe diventata mia moglie».
Che nonno è, maestro Muti?
«Ho cinque nipoti meravigliosi, Cristina è una nonna super, ricercatissima dai ragazzi e molto presente. Il tempo che ho, quando sono a casa, mi piace trascorrerlo con loro perché sento che mi vogliono bene. Tutti hanno un grande senso della musica, sono intonati, come il loro bisnonno, il mio papà, che aveva una voce bellissima: era medico e anche di fronte a pazienti terminali cantava per dare loro coraggio, per dare la sensazione che la vita fosse ancora lì ad aspettare».
Chi le manca oggi?
«Il mio primo fratello scomparso di recente, i miei genitori, gli amici del liceo Vittorio Emanuele di Napoli, i miei compagni della terza liceo, sezione C, eravamo in ventotto. E di quei ventotto oggi siamo rimasti in sei. Eravamo una cosa sola, amici, compagni, solidali e pronti ad aiutarci. Nell’atrio del Vittorio Emanuele c’è una targa che celebra i personaggi famosi che hanno frequentato la scuola, Mercalli quello della scala per misurare i terremoti, Giuseppe Moscati, il medico santo, Francesco De Sanctis, Libero Bovio. L’ultimo nome è il mio, messo lì mentre sono ancora vivo».