Renny Cushing (1952-2022) - WikiCommons
Faceva un freddo ghiacciato il 17 dicembre 2000 davanti al Palazzo di Vetro a New York. Una piccola manifestazione dopo la consegna a Kofi Annan di tre milioni di firme raccolte nel mondo da Sant’Egidio, per chiedere di fermare la pena di morte: Susan Sarandon, Helen Préjean, Tim Robbins, altri. E Renny Cushing, che conoscevo ancora poco, un combattente dei diritti umani che è morto di cancro lunedì, a casa sua. Sette anni dopo, in un momento-chiave per la storica approvazione della prima Risoluzione per una Moratoria universale dell’Assemblea Generale dell’Onu, furono cinque i milioni di firme da 152 Paesi, tutte le culture e religioni, che portammo assieme alla vigilia del voto al presidente dell’Assemblea. Sconfiggevano in radice l’argomento che da 15 anni bloccava tutto, che la moratoria era una imposizione della visione europea dei diritti umani, 'imperialismo culturale'. La sera prima abbiamo cenato a New York con sister Helen e Renny, che intanto nel 2004 aveva fondato con altri Mvfhr, Murder Victims’ Families for Human Rights: «Quando si uccide un condannato a morte, si creano altre vittime, loro sì, sicuramente innocenti: i figli, le mogli, i genitori, gli amici di chi viene ucciso con premeditazione dallo Stato», diceva Renny. «Eliminare il colpevole o presunto tale aggiunge solo un’altra morte e non c’entra niente con la guarigione dal dolore delle vittime». Lui sapeva di che cosa parlava. Il 1° giugno 1988 un vicino di casa, un poliziotto in pensione, aveva bussato come altre volte. Ma quando ha aperto la porta il signor Cushing, un insegnante 'progressista' di origine irlandese che si era permesso di questionare sulle botte che erano state inflitte al comando a una ragazza fermata dalla polizia mentre andava a una novena, quell’ex poliziotto era diventato un assassino. Due colpi di fucile nel petto, e il sangue nell’atrio di casa e sui muri. A suo modo, un 'omicidio politico', una 'lezione'. Renny è quello che ha pulito la sua casa dai segni di quell’odio. «Prima dell’assassinio di mio padre avevo già maturato un quadro di valori che includeva il rispetto della vita e il rifiuto della pena di morte. Per me cambiare quei valori e quelle convinzioni perché mio padre era stato assassinato era soltanto dare più potere ai suoi assassini, che si sarebbero presi non solo la sua vita, ma anche quello che mi ha trasmesso. Questo vale anche per la società, perché la pena di morte rende tutti assassini: ci fa diventare quello che ci fa orrore e che aborriamo». La morte non era sazia: qualche anno più tardi anche il marito di sua sorella è stato assassinato. Ma non era facile incrinare Renny. Come capitano della squadra di football al liceo, quando portava le basette lunghe, come ragazzo inquieto, un cristiano impegnato e curioso del mondo che a 16 anni aveva comprato una tessera dei trasporti per attraversare on the road gli Stati Uniti. Voleva andare a New Orleans, era finito in California. «Sono un inguaribile romantico, un rivoluzionario che invecchia», scherzava su di sé. Un combattente dell’umano. Di quelli che vogliono cambiare il mondo da quando sono ragazzi e che non smettono fino all’ultimo giorno, a 69 anni. Vangelo e beat generation. In un mondo provinciale lui a 18 anni aveva già il passaporto. Ha visitato l’America Latina, e alla fine la Louisiana, dove ha visto lo stesso odio latente che a Memphis, Tennessee, nel 1968, aveva assassinato M.L. King: la sua foto l’ha tenuta sempre nel suo ufficio di capo dei deputati democratici del New Hampshire. Si era fatto arrestare una volta volta con la Clamshell Alliance avevano marciato lungo la ferrovia e per fermare la costruzione della centrale nucleare di Seabrook. Ma la sua vita con i familiari delle vittime, a raccontare come solo nel perdono c’è un inizio di guarigione e che solo la vita riesce a ricucire quello che è stato strappato, non si è allontanata da quella casa di colore verde penicillina. «Rimanere in questa casa è stato il modo di riappropriarmi della mia vita. Non si potevano prendere anche le mie radici. E si è trasformata. Il pavimento dove c’erano le pozze di sangue di mio padre è quello dove le mie figlie hanno imparato a gattonare e a camminare». Uno tenace, Renny. È così che il New Hampshire, Stato repubblicano col motto: 'Vivi libero o muori' al quarto tentativo ha abolito la pena di morte. L’aveva già abolita a maggioranza, ma il governatore ha messo il veto. Un anno dopo, nel 2019, il senato l’ha approvata con un voto di più di due terzi, rendendo impossibile il veto del governatore. Con Renny ha votato anche la senatrice Ward, repubblicana, a cui hanno assassinato un parente. Un uomo con il culto dell’amicizia e una visione glocal, rispettato anche dagli avversari. Un cristiano. Che ha spuntato anche la cattiveria del suo cancro. Era preoccupato di non portare a termine le cose iniziate. Eppure la pena di morte e la vita sono più forti perché Renny adesso non ha più le costrizioni di tempo e di spazio e la fatica finale del suo corpo e, come si dice, lotta insieme a noi.