Pericle Fazzini, Bozzetto per la Risurrezione dell'Aula delle Udienze. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Collezione d’Arte Moderna e Contemporanea. L'opera è esposta al Museo Diocesano di Milano fino al 5 giugno nella mostra "La Passione. Arte italiana del ‘900 dai Musei Vaticani" - © Governatorato SCV, Direzione dei Musei e dei Beni Culturali
«Credo che l’arte occidentale non sia mai stata così distante dalla religione organizzata quanto lo è l’arte contemporanea, il che, a seconda dei punti di vista, potrebbe essere il suo risultato più notevole o il suo principale fallimento». Lo scrive James Elkins in Lo strano posto della religione nell’arte contemporanea (Joahn&Levi, pagine 160, euro 24,00). Un libro interessante che andrebbe letto da tutti coloro che si occupano di questi temi. Interessante per diversi motivi: è scritto da una prospettiva laica, fatto raro (ma non unico, in Italia si segnala ad esempio Demetrio Paparoni); è un libro pessimista, ma non perché muove da una posizione ideologicamente oppositiva verso certa arte contemporanea o verso la religione; è un libro scritto da una prospettiva americana, dove il rapporto tra religione, identità e modernità è diverso dal vecchio continente, fatto che suggerisce la necessità di pensare il problema con impianti ermeneutici meno eurocentrici.
Il volume muove dalla domanda sul perché «la religione è la grande assente soprattutto nelle storie dell’arte moderna e contemporanea». Ignorata, ostracizzata o così minoritaria da risultare irrilevante? Si potrebbe parlare di fenomeno carsico, ma non basta. Elkins non intende un’arte “spirituale”, legata all’interiorità del singolo, ma che abbia a che fare con un sistema teologico e cultuale definito e regolamentato. Certo, non è possibile esaminare il problema sotto un profilo unitario, perché differenti sono le religioni e soprattutto diverso è lo statuto dell’arte in ognuna di esse – e all'interno dello stesso cristianesimo le posizioni sono diverse. Specularmente allo strano posto della religione nell’arte contemporanea c’è quello altrettanto strano dell’arte contemporanea nelle religione.
L’impressione è di una sorta di conventio ad excludendum: «La religione è raramente menzionata nel mondo dell’arte a meno che non si tratti di contestarla, di prenderne ironicamente le distanze. L’arte che contesta la religione è a sua volta oggetto di biasimo da parte dei conservatori ma di interesse da parte dei critici d’arte. Al contrario, l’arte sinceramente religiosa tende invece a essere ignorata da entrambe le categorie». Le immagini con soggetto religioso pullulano, ma appartengono a quella che Elkins definisce «arte religiosa» (e che in Italia definiremmo “arte sacra”, insegnata in scuole apposite e protagonista di fiere dedicate), un’etichetta in cui rientra un’immaginario che spesso ma non necessariamente supera il margine del kitsch, un’arte piena di buona volontà e magari tecnicamente ben fatta ma la cui natura devozionale appare incomprensibile, tra l’assurdo e il comico, per chi non ne condivide i principi.
Ma è altrettanto vero, come osserva Elkins, che la religiosità espressa con sincerità crea imbarazzo: nel sistema dell’arte contemporanea la religione funziona solo se è un gioco linguistico o un bersaglio. «Il mondo dell’arte dell’arte accetta un ampio spettro di arte “religiosa” fatta da persone che odiano la religione, che ne dubitano fortemente, e verso la quale nutrono sentimenti di malcontento, ostilità e scetticismo, ma non c’è posto per artisti che esprimono una fede semplice e ordinaria». La soluzione, suggerita dallo stesso Elkins, è una sorta di via apofatica che sa però di nicodemismo: alludere, celare. Ma vale solo per chi professa religioni storiche. Per forme di sincretismo e neopaganesimo, vudù e postrazionalismo, astrologia, animismo e erboristeria alchemica non ci sono problemi di cittadinanza.
Elkins, attraverso una serie di cinque storie esemplari derivate da incontri con suoi studenti all’Art Institute of Chicago, mette in campo una fenomenologia che va dall’artista che crea nuove fedi alla critica della religione alla religione inconscia. Ma al fondo il responso è pessimista: le due realtà sono incompatibili.
È davvero così nera come la dipinge Elkins? L’esperienza sembra dire di no (giustamente nella postfazione Luca Bertolo, sempre da posizione laica ma interessata al problema, ricorda il caso storico di Lucio Fontana e quello attuale di Alessandro Pessoli, ma potremmo aggiungere Mimmo Paladino, Maria Lai, Andrea Mastrovito... O Sean Scully, che curiosamente Elkins registra tra coloro «che non possono far parte del novero degli spirituali») e su queste pagine lo abbiamo tante volte documentato. Si può obiettare a Elkins, nonostante sia uno storico dell’arte, di avere un’idea da critico militante di ciò che è arte contemporanea, ristretta a una certa lettura del postmoderno per il quale il gioco, l’ambiguità e l’ironia sono i soli registri possibili. L’esperienza ci insegna però che bastano un paio di decenni per ribaltare completamente impianti critici, con l’emersione a ruoli centrali di esperienze artistiche prima ignorate o viste con sospetto. Potremmo persino dire che sia un problema tutto interno all’arte: non sembra creare problemi la presenza della religione nell’architettura, nella letteratura, nella musica, nel cinema.
Ma ciò che emerge davvero da questo libro è che le parole della “teologia estetica” sono incomprensibili per molti artisti. Nonostante la pretesa di universalità, i discorsi su bellezza e mistero mettono in bocca agli artisti concetti in cui non si riconoscono. O decidiamo, tirando un linea, che molto di quanto si produce oggi non è arte o proviamo a rimodulare schemi ancorati a sistemi filosofici antichi di secoli e millenni. Altrimenti è come pensare di parlare del cosmo, nell’era della relatività e della meccanica quantistica, utilizzando il modello tolemaico.