Clemente Rebora - archivio
Domani, 6 aprile, alle 17 nell’aula magna della Cattolica di Milano viene presentata la nuova edizione commentata dei Canti anonimi di Clemente Rebora, edita da Interlinea e curata da Gianni Mussini (pagine 264, euro 28). Il volume propone una prefazione di Pietro Gibellini che proponiamo qui sopra in ampia sintesi. La presentazione sarà animata dalla tavola rotonda 'L’immagine tesa: l’attualità di Rebora' alla quale parteciperanno, col curatore Mussini, anche Giuseppe Langella, docente alla Cattolica e Valerio Rossi dell’Istituto sant’Ambrogio, Centro novarese di studi letterari. L’incontro sarà coordinato da Roberto Cicala, docente della Cattolica e direttore editoriale di Interlinea.
Radicata è l’attitudine della storiografia letteraria a riunire i grandi scrittori in terne: le corone del Trecento, Dante-Petrarca- Boccaccio; quelle del-l’Italia unita, Carducci- Pascoli- D’Annunzio; quelle del secolo breve, Ungaretti- Saba- Montale. A questi campioni della poesia novecentesca è andato ad aggiungersi, progressivamente, Clemente Rebora, per iniziativa, soprattutto, di Gianfranco Contini, Carlo Carena, Giovanni Raboni, Vanni Scheiwiller, figure di intellettuali che con il poeta lombardo hanno condiviso e condividono la geografia fisica ed etica. Sul loro terreno culturale e mentale sono radicati anche l’editore e il curatore di questi Canti anonimi, volume che arricchisce la serie reboriana di Interlinea, già nobilitata dai Frammenti lirici, dal Curriculum vitae, dagli scritti di guerra, dal carteggio con Scheiwiller. Fondando il testo sulla princeps e sulle postille autografe, e accompagnandolo con un chiaro apparato di varianti, Gianni Mussini (il curatore) si giova delle solide competenze filologiche acquisite negli anni d’oro dell’università pavese. Ma, lettore di poesia e poeta in proprio, mostra di avere una particolare sensibilità e acutezza nell’interpretare le poesie del suo autore. La compresenza delle diverse attitudini fa sì che le tre facce cristalline di questo libro, l’ecdotica, l’esegetica e l’ermeneutica, si riflettano l’una nell’altra, cosa che oggi si verifica raramente negli studi italianistici, dove la filologia circola spesso povera e nuda, come la filosofia nel memorabile sonetto petrarchesco, vuoi perché trascurata o ignorata dai più, vuoi perché chi la pratica fornisce spesso masse di dati non lievitati da fermenti interpretativi. La chiave che consente a Mussini di combinare il lavoro di editore, di commentatore e di critico sta nell’adozione di un criterio filologico, aggettivo da intendere, come lui chiarisce, nel senso etimologico di «amore della parola», criterio che gli consente «di illustrare il testo in tutte le sue implicazioni». Siamo agli antipodi di quello che Contini liquidava come filologismo, e nel cuore dell’ellisse nei cui due fuochi stanno i termini, amore e parola, che caratterizzano tanto il metodo dell’interprete, quanto la visione dell’interpretato. Il peso di questi valori- guida andrà crescendo nell’opera di Rebora, a partire dai Frammenti lirici e fino ai Canti anonimi, e farà acquistare idealmente ai loro nomi l’iniziale maiuscola. Dopo la conversione, don Clemente abbandonerà la scrittura poetica, che recupererà solo negli anni estremi, quando nel Curriculum vitae e nei Canti dell’infermità il minuscolo e il Maiuscolo finiranno per intrecciarsi, per abbracciarsi. Nei commenti alle singole liriche, Mussini coniuga diligenza e discrezione, stringendone efficacemente il succo ed evitando la trappola delle risorse elettroniche, quelle che spingono spesso i critici recenti a sovraccaricare i testi di rinvii ad altri autori. Le poesie di Rebora, si deve peraltro notare, hanno più contatti con altri versi della sua opera che con quelli dei precursori, le cui rare riprese, segnalate opportunamente da Mussini nel saggio introduttivo, non sono mai pedisseque né esibite. Anche là dove l’orecchio avverte, per esempio, un’eco dell’Onda dannunziana, colpisce la lontananza tra il descrittivismo iconico-musicale dell’Imaginifico e la meditazione cosmica reboriana, più prossima semmai a quella simboleggiata dagli abissi di Baudelaire o dal Mediterraneo di Montale. Dante, la cui incidenza su Re- bora è ora indagata nella robusta monografia di Roberto Cicala ( Da eterna poesia, il Mulino, Bologna 2021), si conferma suo modello di densità ed espressivismo, anche se la sonante asprezza che caratterizzava i Frammenticoabita nei Canti – dove predomina il sermo humilis, consono al loro supposto anonimato – con la melica dolcezza delle rime, che richiama quella delle pascoliane ninne-nanne e delle filastrocche infantili. Assai persuasivo è pure il rinvio di Mussini a certe cadenze di Jacopone, autore da lui studiato a fondo. I frutti più sostanziosi del suo lavoro, Mussini li offre nel saggio introduttivo. Coniugando la critica stilistica con lo studio del pensiero del poeta, strettamente connesso alle sue vicende biografiche, Mussini esamina la forma del testo senza prescindere dal significato, e vede dunque nel lessico una spia dello stato d’animo e il riflesso di una ricerca conoscitiva. Valga per tutte la voce perdono, i cui riaffioramenti sono considerati tappe della progressiva metànoia del poeta, nella quale giocano un ruolo essenziale le vicende amorose e il trauma della guerra. Ed è proprio un episodio bellico, la vista del corpo decomposto di un commilitone, a fargli intitolare una poesia Perdóno?, dove il punto interrogativo segnala lo smarrimento della coscienza, la sete di un senso che il poeta va cercando strenuamente. Con precisi appoggi testuali, Mussini illumina anche l’itinerario che porterà l’autore alla fede, itinerario di cui traccia il percorso con mano delicata, spiegando «Rebora con Rebora». Il rigore del suo metodo lo protegge dal rischio di scambiare una conversione potenziale per una conversione in atto, forte della lezione dell’amato e studiato Manzoni, da cui ha appreso che le metamorfosi della coscienza non sono improvvise né radicali, e che l’uomo vecchio reca in sé il germe dell’uomo nuovo. Il passaggio di Rebora dall’io al noi e dal noi all’Altro emerge dal confronto dei Frammenti lirici, moderno Liber fragmentorum che lega in collana le schegge di un ego egemone ma diffratto, con i Canti anonimi, in cui il soggetto, da solista, si fa voce di un coro. Il titolo, denso e pregnante, chiarisce la novità del volumetto rispetto alla prima raccolta: il melodioso sostantivo 'Canti' ha ben altro suono e senso rispetto a 'Frammenti', e all’aggettivo implicitamente narcisistico del libro precedente, 'lirici', succede ora 'anonimi', come se quei canti non fossero composti ma soltanto «raccolti» dal poeta, giusta la dicitura del frontespizio della princeps. In tal modo Rebora si allinea di fatto all’estetica rosminiana e manzoniana dell’inventio, secondo cui il poeta non è che il tramite di un dono provvidenziale, trovatore e diffusore di testi che esisterebbero prima e fuori di lui. I Canti segnano dunque un progresso poetico e spirituale nella vicenda dell’autore, ma anche al loro interno fanno registrare un avanzamento, quello dall’alfa della sua quête letteraria e mentale all’omega dell’incontro supremo, ancora incerto. La raccolta si apre infatti con la lirica in cui Rebora, ponendosi in paziente e calma attesa, raccoglie e serba nel cuore i frutti della propria meditazione per donarli poi «a chi ha cercato»; e si chiude con la poesia in cui la persistente attesa di «nessuno» si fa certezza dell’arrivo di un misterioso Qualcuno, già presente con il suo «bisbiglio». L’agnizione del dolce ospite dell’anima imporrà al Rebora sacerdote una lunga astensione dalla scrittura letteraria. Poi, con l’esperienza dolorosa della malattia, tornerà a scorrere la sua vena lirica, posta al servizio di una Parola e di un Amore fattisi più grandi.