Il drammaturgo Jon Fosse, premio Nobel per la Letteratura 2023 - WikiMedia / CC BY 4.0
«Adesso spariranno le parole», dice Peter, migliore amico di Johannes, nel finale di Mattino e sera (La nave di Teseo), racconto lungo dello scrittore, poeta e drammaturgo norvegese Jon Fosse, 64 anni, vincitore del premio Nobel per la Letteratura 2023 (succedendo ad Annie Ernaux) «per le sue opere teatrali e la prosa innovativa che danno voce all’indicibile». Invece le parole di Fosse, ora, sono più presenti che mai, così come la sua opera «che abbraccia una varietà di generi ed è costituita da una ricchezza di opere teatrali, romanzi, raccolte di poesie, saggi, libri per bambini e traduzioni», scrive il sito del premio.
Nonostante la varietà di generi, a caratterizzare la scrittura di Fosse sono essenzialmente due elementi: il primo è tecnico, ovvero le ripetizioni che in realtà sono finte ripetizioni perché Fosse cambia talvolta anche solo un minimo elemento o particolare e anche se apparentemente, a un primo sguardo, certe frasi appaiono uguali, uguali non sono.
Il secondo elemento riguarda invece l’approccio non solo alla scrittura, ma all’applicazione di questa a ogni cosa: è come se Fosse portasse nella sua scrittura, nelle sue parole, qualcosa di ineffabile, con la capacità di dire quello che è indicibile, che è lo stesso principio alla base della poesia, o della religione. Questo elemento non è casuale. In primo luogo perché «la letteratura – ha scritto di lui un altro autore norvegese, Karl Ove Knausgård – può metterci in contatto con un altro spirito umano con tutte le sue debolezze e grandezza», in secondo luogo per la storia personale di Fosse. Nel 2012 infatti lo scrittore si è convertito al cattolicesimo e questo si è inevitabilmente riversato sulla sua opera: «Sento che nella mia scrittura – ha detto in un’intervista al “New Yorker” – c’è una sorta di riconciliazione. O, per usare una parola cattolica o cristiana, di pace».
Fosse è nato il 29 settembre 1959 a Haugesund, un piccola cittadina sulla costa occidentale norvegese, crescendo a Strandebarm, sullo spettacolare fiordo di Hardanger, una parte della Norvegia in cui la presenza della religione è a maggioranza protestante. Nei suoi libri emerge spesso il tema di Dio e della fede. In Mattino e sera scrive, a proposito di parole che non spariranno: «La parola e lo spirito di Dio esistono in tutto. Dio esiste, ma è molto lontano e del tutto vicino, perché è presente in ogni singolo essere umano».
Il tema emerge anche in Settologia, romanzo esemplificativo di quello che ha descritto come il suo passaggio alla “prosa lenta”, uscito nei primi due volumi, L’altro nome I-II, e dal 10 ottobre in libreria con i volumi III-V, Io è un altro, sempre con La nave di Teseo. La voce narrante della Settologia è un pittore di nome Asle, convertito al cattolicesimo, in lutto per la morte della moglie Ales. La notte prima della vigilia di Natale, Asle trova il suo amico, anch’egli pittore di nome Asle, privo di sensi in un vicolo di Bergen, morto per avvelenamento da alcol. I loro ricordi si raddoppiano, si ripetono e gradualmente si confondono in un’unica voce, una coscienza diffusa capace di esistere in molti tempi e luoghi contemporaneamente.
Il tema del “doppio” che si fonde in un’unica voce, in qualche modo è presente anche in Mattino e sera, dove un bambino viene al mondo e si chiama Johannes e un uomo ormai anziano muore e si chiama Johannes. Uno sarà un pescatore, uno lo è stato, due estremi della vita che si guardano, si specchiano, si danno il cambio e possono o non possono essere la stessa cosa: «Adesso noi due saliremo sulla barca e partiremo. Dove andremo? Adesso fai domande come se tu fossi ancora vivo. Da nessuna parte? Dove andremo, non è nessun posto e per questo motivo non possiede neppure un nome».
In quel non luogo non esistono corpi, non esiste sofferenza, non esistono parole, esiste solo uno spazio e un tempo che in realtà è un flusso continuo, come la stessa non punteggiatura di Fosse. Esistono perciò solo rette che si toccano, si intersecano, si sfiorano, si accarezzano nelle cose piccole, minime, quelle per cui è necessaria la fede. «Se sei un vero credente – continua nell’intervista al “New Yorker” – non credi nei dogmi o nelle istituzioni. Se Dio è una realtà per te, credi a un altro livello. Ma questo non significa che i dogmi e le istituzioni religiose non siano necessari. Se il mistero della fede è sopravvissuto per duemila anni, è perché la Chiesa è diventata un’istituzione. È necessaria una sorta di comprensione comune. Nel mondo in cui viviamo, sento che i poteri sono quelli economici, che sono così forti. Sono loro che comandano tutto. E ci sono forze che stanno dall’altra parte, e la Chiesa è una di queste. E perché la Chiesa esista – e la Chiesa cattolica è la più forte – bisogna in qualche modo forzare il cattolicesimo. La Chiesa è l’istituzione più importante, a mio avviso, della teologia anticapitalista. La letteratura e l’arte sono un’altra istituzione, ma non sono forti come le chiese».
Oltre ai libri citati, la produzione di Jon Fosse è incredibilmente prolifica e intellettualmente poliedrica, essendo la sua una tra le voci più significative della drammaturgia contemporanea tanto da guadagnarsi il soprannome di “Beckett del XXI secolo” ed essere paragonato a Henrik Ibsen: il suo romanzo d’esordio, Raudt, svart (“Rosso, nero”), è stato pubblicato nel 1983. La sua prima opera teatrale, Og aldri skal vi skiljast (“E non ci separeremo mai”), è stata rappresentata e pubblicata nel 1994.
Inoltre Fosse ha scritto racconti, poesie, libri per bambini, saggi sulla scrittura, sul teatro, sull’arte e numerose opere teatrali. È stato poi tra i consulenti letterari di Bibel 2011, una traduzione norvegese della Bibbia pubblicata nel 2011 e le sue opere sono state tradotte in più di quaranta lingue, motivo per cui è universalmente considerato uno dei più importanti scrittori contemporanei e molto conosciuto fuori dalla Norvegia. Fosse è anche autore di un dittico sul pittore norvegese ottocentesco Lars Hertervig, Melancholia (1995-1996; traduzione italiana Fandango 2009), e di numerosi altri testi.
Nella storia del Nobel, l’ultimo autore scandinavo a vincerlo è stato il poeta svedese Tomas Tranströmer nel 2011; tra i Nobel norvegesi, invece, l’ultimo era stata la scrittrice Sigrid Undset (nel 1928), recentemente pubblicata in Italia da Utopia con La ghirlanda. Kristin Lavransdatter.
E ora? Una domanda che presuppone quanto possa cambiare la vita di un autore vincere un Nobel: per Szymborska il suo fu la “tragedia di Stoccolma”, per lo schivo Fosse si vedrà. Quel che probabilmente resterà sarà il filo conduttore che guida la sua idea letteraria di flusso, ben rappresentata da queste parole di Mattino e sera: «Johannes se ne sta lì impalato a osservare e pensa che tutto è come deve essere, ma allo stesso tempo è come se tutto fosse diverso, tutti gli oggetti sono normali, eppure è come se avessero acquisito una loro dignità, come se pesassero molto di più del loro peso reale e allo stesso tempo fossero privi di peso».