Negli anni novanta, lo psicologo israeliano Dan Bar-On riunì diversi gruppi nell’intento di far comunicare tra di loro sopravvissuti della Shoah e discendenti di gerarchi nazisti. A quel tempo non si parlava continuamente di 'empatia', come invece accade ora. Il principio/chiave dell’iniziativa (i cui frutti si rivelarono presto sorprendentemente positivi in termini di reciproca accettazione) si basava però su una medesima idea. Non si tratta di scagionare il nemico, quanto di trovare una forma di comprensione e di fiducia in lui. Riflettere sulla sua storia, sulla sua condizione di individuo, moralmente lontano quanto umanamente vicinissimo. Passa un decennio perché analoga iniziativa assuma la forma di un’associazione, via via molto frequentata e più importante: è il Pcff (Parents circle - families forum). A venir fatti incontrare, sono genitori di figli morti nel conflitto araboisraeliano. In presenza di psicologi/mediatori, padri e soprattutto madri si raccontano a vicenda i rispettivi lutti, gli irrimediabili dolori. Ci si odia, in principio: si lascia che i moti d’animo i più controversi e ombrosi trovino voce, che il risentimento abbia spazio sino al punto di svuotarsi di significato. Poi ci si allena a porsi dal punto di vista del nemico, quell’avversario nel nome della cui intollerabile causa le vite giovani e splendenti dei propri figli sono state spezzate, senza che nulla possa farle tornare, né altro rimedio sia dato oltre al fragile equilibrio di esistenze tutte vissute nel segno della perdita.
Del Pcff e delle sue diverse declinazioni, narra la giornalista francese Anne Guion in un libro, Le nostre lacrime hanno lo stesso colore, Edizioni Terra Santa, pp. 151, euro 16. Un testo che ha come protagoniste due donne: due madri, una araba e l’altra israeliana, alle quali in sorte è accaduta la medesima disgrazia: perdere un figlio per mano avversaria, conoscendo così nel cuore, nelle viscere, una sete di vendetta che solo grazie al confronto e all’ascolto reciproco ha potuto trasformarsi in altro. Vicende di metamorfosi interiori, lente quanto radicali. Evoluzioni di chi, una volta fatta propria l’istanza che il dolore dell’altro rappresenta, è capace di modificare il proprio universo morale. Si intrecciano le storie delle due madri, ognuna trova nell’altra riverbero del proprio dolore. Qualcosa trascende la storia, la politica, e invece prende corpo per animarsi di nuova vita: diviene relazione umana. Punto chiave è l’ascolto, la capacità di sentire, e sentirsi. In silenzio, con pacata maturità, assorbire e assimilare la visione di chi è diverso da sé. Quel che non accade in seno al mondo arabo, a causa del mancato dialogo tra i sessi. È smisurato, e all’apparenza non destinato a diminuire, lo iato che separa uomini trincerati dietro la mentalità della Umma (comunità dei musulmani), e donne che invece laboriose, tenaci, cercano e trovano la loro emancipazione.
Di questo drammatico divario racconta un altro libro, polifonico: La nostra rivoluzione: voci di donne arabe, Elèuthera, 2017, pp.130, euro 13. Lo ha curato Hamid Zanaz, giornalista algerino. Si compone di sue conversazioni con filosofe, artiste, scrittrici, altre protagoniste della 'primavera araba' di un pensiero che sarebbe improprio definire femminista, ma che senza dubbio resta focalizzato sul femminile. Ne emerge un quadro al tempo stesso incoraggiante e desolante. Dove alle tinte più chiare di uno scenario in evoluzione, capace di liberarsi di schemi riduttivi e limitanti, si contrappongono quelle ben più fosche di un mondo immobile, sbarrato di fronte alla possibilità di voler riconoscere alle donne la pienezza di una vita felice perché autonoma, vissuta nella libertà della scelta. In risposta al pensiero maschile arabo-musulmano dominante, arroccato su una visione sostanzialmente anti-democratica, valgono i versi di Rilke citati da una delle intervistate, la psicanalista tunisina Raja Ben Slama: «Quello che fu non è più per loro, né lo sarà quel che verrà». Parole decisive contro tutti i pensieri oscurati che in questo mondo impazzito rendono sempre meno possibile ascoltare l’altro, lasciarlo crescere, lasciarlo esistere in pace. Quella la sola emancipazione possibile, per uomini e donne, allo stesso identico modo.