martedì 4 giugno 2024
È morto a 98 anni uno dei principali teologi del secondo Novecento. Fondamentale anche la sua riflessione teologica sulla croce sul creato. Pastore evangelico, si dedicò intensivamente all'ecumenismo
Jürgen Moltmann alla Conferenza del Consiglio Mondiale delle Chiese a Utrecht, nel 1972

Jürgen Moltmann alla Conferenza del Consiglio Mondiale delle Chiese a Utrecht, nel 1972 - WikiCommons

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È stata una parabola umana e intellettuale, lunga e feconda quella conclusasi ieri a Tubinga, all'età di 98 anni, per Jürgen Moltmann, teologo fra i più importanti del XX secolo. Una vita, nella parte più lontana segnata dalle lacerazioni provocate dalla seconda guerra mondiale e dalla prigionia, in quella successiva da una grande creatività speculativa, mai estranea alle vicende del suo tempo, capace di collocare l’umanità in una tensione unitiva fra storia del futuro e memoria della speranza, a trasformare la teologia politica in una teologia del Creato.
Moltmann era nato ad Amburgo nel 1926 in una famiglia protestante liberale. Arruolato nella Wehrmacht ancor prima di iscriversi all’università, nel luglio ‘43 durante il bombardamento di Amburgo vide morirgli accanto un commilitone, esperienza indelebile mai dimenticata nei suoi scritti autobiografici. Fatto prigioniero dagli inglesi nel ‘45 trascorse tre anni nei campi di concentramento alleati, prima in Belgio e poi in Scozia, a lungo meditando in questo periodo temi come la vita e la morte, la colpa individuale e collettiva, la presenza di Dio nella storia: leggendo la Bibbia; approdando ad una fede matura. Più tardi avrebbe affermato: “Non fui io a incontrare Cristo, ma Cristo a incontrare me”. Rientrato in Germania nel ‘48, si iscrisse alla facoltà teologica di Gottinga. Decise di diventare pastore evangelico e si laureò nel ’52. Nello stesso periodo, oltre a docenti discepoli di Karl Barth come Otto Weber, o esponenti della Chiesa confessante negli anni del nazismo come Hans Joachin Iwand, conobbe anche Elizabeth Wendel sposata nell’anno stesso della laurea, poi partecipe del suo itinerario teologico. Iniziata la sua esperienza pastorale a Bremen-Wasserhorst vi trascorse cinque anni, rispondendo alle esigenze spirituali della comunità affidatagli e via via configurando una sua “teologia del popolo” – un popolo provato dalle conseguenze belliche-, al contempo, continuando a studiare (conseguendo il dottorato) e dal ’58 al ’63 accettando la docenza nella facoltà ecclesiastica riformata di Wuppertal (dove conobbe Wolfhart Pannenberg), poi dal ‘1963 al ‘68 all'Università di Bonn, quindi di Tubinga.
Nacque e si costruì in quegli anni anche l’impianto della sua trilogia più famosa, capace di saldare il personale ed il politico. A partire da Teologia della speranza, apparsa nel ’64 e in Italia con Queriniana nel ’70 (ma fu questo anche il tempo dei confronti con la “teologia dell’Antico Testamento” di Gerhard Von Rad, Walther Zimmerli, Hans Walter Wolff, Hans-Joachim Kraus…, con il pensiero di Rudolf Bultmann, Ernst Käsemann, Ernst Bloch), seguito dalle altre due opere tradotte sempre da Queriniana. La prima, Il Dio crocifisso del ’72, elaborazione di una theologia crucis con ampio spazio per la sofferenza di Dio e non senza critiche a forme alienanti nel culto della croce (e qui Moltmann mette in conto accuse di patriprassianismo). La seconda, La chiesa nella forza dello spirito, del ’75, saggio di ecclesiologia messianica dove la Chiesa si configura collegata al suo fondamento cristologico e immessa nel movimento aperto della storia trinitaria: un’ecclesiologia incentrata sul rapporto costitutivo con il Regno di Dio che si realizza nella storia e sviluppata unendo l’ottica relazionale-cristologica alla determinante peumatologica.
È indubbio che tale trilogia come anche successivi lavori moltmanniani appaiono corroborati da significative esperienze culturali e spirituali. Come il dialogo tra cristiani e marxisti e quello della teologia europea con le teologie della liberazione (in questo quadro si colloca anche l’incontro con Johann-Baptist Metz insieme al quale già nel ’67-’68 aveva inaugurato il significato politico della nuova teologia di fronte ad Auschwitz). Come il confronto interconfessionale, condotto anche in quanto membro del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC), ambito che l’ha portato ad approfondire teologia ortodossa e pensiero ebraico ( e ad affermare “Il protestantesimo è solo la mia provenienza, l’ecumenismo è il mio futuro”).
Insomma una molteplicità di orizzonti che non hanno scalfito l’autonomia del suo lucido pensiero già gravido all’inizio degli Anni Ottanta di nuovi contributi sistematici ancorati a una “teologia in movimento, dialogo, conflitto”. All’alba del nuovo secolo Moltmann si domandava “Che cosa è rimasto? Che cosa se n’è andato?”. E rispondeva: “Ciò che è rimasto, […] è il riconoscimento della dimensione politica per la fede cristiana della croce di Cristo e del Regno di Dio. Ciò che è rimasto è la necessaria critica agli idoli della religione politica e civile. Ciò che in genere è stato accettato è l’opzione preferenziale per il povero. Ciò che si è sviluppato sono i princìpi di ogni teologia contestuale: contesto, kairos, comunità”.
In quest’alveo Moltmann sino a poco fa ha dato ulteriore spessore anche alla sua riflessione ecologica riformulata in diversi incontri -anche in Italia- nei quali ha offerto il suo paradigma alternativo alla visione antropocentrica della modernità, che ha fatto dell’uomo il dominatore di una natura sottratta a ogni rapporto col Creatore, tema che, insieme alla catastrofe causata dalla pandemia -somigliante un po’ alla “valle oscura” del Salmo 23, si ritrova nell’ultimo libro del teologo riformato Teologia politica del mondo moderno, edito nel 2022 da Claudiana.


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