Con la macchina ci si può arrampicare fino a un certo punto. Poi bisogna inoltrarsi a piedi in un bosco dal silenzio avvolgente, abitato solo dagli sguardi furtivi di qualche capriolo. Un cammino dell’altro mondo, che regala squarci mozzafiato sul lago di Como e porta fino all’Eremo degli Angeli di Vendrogno, a mille metri di altitudine in località Lornico (Lecco). Sul sentiero ti viene incontro, austero, padre Michele Di Monte, 41 anni, monaco eremita che in questo luogo ha trovato il suo «lembo di cielo». È lui da sei anni il custode di questa piccola baita in pietra e legno abbarbicata insieme a poche altre. Sull’abito ambrosiano nero spiccano barba, cintura e cappellino che è «come la cuffietta che una volta mettevano ai bambini: per il grande Cassiano serve a tener calda l’infanzia spirituale. Lasciarsi invece crescere la barba per la tradizione orientale è rimanere fedeli a come ci ha fatto Dio. Così come Cristo aveva la barba secondo le immagini più antiche. Poi certo la barba non basta a fare santo il monaco. Anche le capre - ammonisce san Girolamo - hanno la barba…». Qui le giornate iniziano molto presto: «Ci si alza alle 4 e si comincia con il silenzio e la preghiera del cuore. Poi si segue tutta la liturgia delle ore. E oltre agli impegni domestici, come fare da mangiare e tagliare la legna, il mio lavoro quotidiano è quello di studio e traduzione dei Padri della Chiesa e dei padri dell’Oriente cristiano».
È nata così una casa editrice sui generis, “Monasterium”, che riporta alla luce tesori della spiritualità monastica occidentale e orientale. Basta addentrarsi nella lettura dei volumi già pubblicati per scoprire la grandezza di autentici maestri di fede e saggezza. Un’iniziativa dal taglio autenticamente “ecumenico” visto che compaiono anche classici della migliore tradizione cristiano ortodossa. Da Un lembo di vita buona degli Antichi autori certosini a Il monachesimo primitivo. Sulle orme dei Padri del deserto a cura di Maria Bianca Graziosi. Per non parlare de La spada e l’orecchio. Vite dei santi Willibrordo, Lioba e Bonifacio a cura di Alberto Maria Osenga dedicato a tre grandi evangelizzatori del Nord Europa. O all’originalissima Filocalia occidentalis, un testo messo a punto dallo stesso padre Di Monte, un’antologia degli scritti dei padri occidentali sull’esempio della Filocalia più celebre, quella orientale. «I libri di Monasterium li scelgo io. Sono quasi tutti inediti in italiano. Da gennaio ne abbiamo già stampati quindici e altrettanti ne stiamo preparando per l’anno prossimo. L’idea è quella di proporre testi di tradizione monastica che siano però alla portata di tutti. Posso contare sull’aiuto di qualche collaboratore tra cui anche la mia guida spirituale, l’archimandrita Gabriel Bunge». Nato a Cernusco sul Naviglio, ma cresciuto a Gorgonzola (Milano), padre Michele ha maturato questa scelta con gradualità: «A 18 anni sono entrato in seminario, ma ho sentito la prima chiamata alla vita eremitica a 21 anni dopo un pellegrinaggio-studio a Gerusalemme. I miei genitori all’inizio non l’hanno capita ma ormai mi vedono felice. Qui del resto non mi manca nulla. Vivo di provvidenza, ma sono in tanti a venirmi a trovare». Uno stuolo di persone, tra cui tanti giovani, sale fin quassù e bussa alla sua porta: «È il Signore che li manda. Qui non ci si arriva per caso. Cercano Dio. E in qualche modo la loro felicità. Perché lontano da Dio la felicità non c’è. In fondo è lo stesso motivo per cui un tempo si andava dai Padri del deserto. Per avere una parola di speranza, in un mondo che forse la sta smarrendo».
L’eco e i timori legati alla generazione “social” arrivano anche qui: «Molti mi riferiscono dell’invasività e del rischio di dipendenza dal Web. La verità è che oggi abbiamo paura di rimanere da soli con noi stessi, di ascoltare i nostri pensieri. Non si è capaci di gestire la tristezza e l’accidia in generale e finiamo per riempire tutti gli spazi con qualche cosa. Capisco le preoccupazioni dei genitori, ma non bisogna nemmeno esserne terrorizzati. I problemi sono solo amplificati rispetto al passato: come il bullismo per esempio che una volta rimaneva nella classe e oggi è molto allargato. Però l’uomo è sempre lo stesso. E non è diverso da me: lo provo qui nella solitudine, ascoltando la mia miseria e ciò che Dio fa per me. Anche se arriva una persona che non ho mai visto, mi rendo conto subito che siamo identici». È una battaglia che si gioca dentro ogni uomo, una lotta che riecheggia in tutti i libri di Monasterium: «Dobbiamo sradicare delle erbacce dal nostro animo, quelle che i Padri chiamavano loghismoi, gli abitanti indesiderati del cuore, i pensieri cattivi. Evagrio ne elenca otto che in Occidente vengono chiamati vizi capitali ma non coincidono. Si va dal più piccolo, la gola, al più grande, la superbia. Tra questi ce n’è uno collegato a tutti, la tristezza: una volta infatti che i vizi si son presi gioco di te ti gettano tutti nella tristezza». Nella prefazione al volume Asceti contemporanei del Monte Athos padre Michele ricorda che i padri definiscono questi vizi anche come «mosche fastidiose»: «Evagrio dice che non si scacciano facilmente, sono vere patologie dell’anima. Basta però non dargli retta: quando si è concentrati su qualcosa a cui teniamo corriamo dritti alla meta come direbbe san Paolo. E l’atleta che lotta nell’arena del cuore è anche l’immagine più usata nel mondo patristico».
La riscoperta dei “padri” della fede da parte di Monasterium corre anche incontro a un bisogno avvertito oggi soprattutto dai giovani: «I figli del ’68 hanno rigettato la figura di un padre, di un giudice, di qualcuno che ti dice questo ti fa bene e questo no». Un’esigenza che non ammette semplificazioni o buonismi: «La misericordia ci salverà certo. Ma va attivata, è inefficace se non ci metto del mio. È come se Dio fosse venuto a metterci un assegno sostanzioso ma poi non andiamo a riscuoterlo: diventa solo un pezzo di carta. Cristo è venuto a offrirci la salvezza ma occorre che andiamo a riscuoterla. Tocca a noi incontrare il Signore misericordioso: non a caso Gesù non incontra le folle ma solo quelli che vi escono. Bisogna uscire dall’anonimato della folla, come Zaccheo: basterà gridare o arrampicarsi su un albero per vederlo. Ma sta a noi farlo ». È un incontro decisivo che chiama in causa il nostro destino: «Che cos’è la vita eterna? “Che conoscano me e Colui che mi ha mandato” dice Cristo nel Vangelo di Giovanni. Il problema è che oggi non è che l’uomo non pensa più alla vita eterna, non ci crede più. Come Chiesa ci crediamo? Se non ci crediamo anche la carità sarà fatta a metà. Perché limitarsi a un aiuto solo materiale può allungare di qualche anno l’esistenza del nostro prossimo, ma non gli servirà per salvarsi in eterno, ossia ciò che conta davvero. L’amore ama nella totalità e la totalità abbraccia la vita eterna». Un compito che ci interpella oggi, adesso: «La domanda decisiva è in fondo quella che Gesù stesso si è fatto: “Il figlio dell’uomo troverà la fede sulla Terra quando tornerà?”. E se torna in questo preciso momento come mi trova? Bisogna esser pronti, con la fiducia nel fatto che Dio ha dipinto in ciascuno la sua immagine. Se ripenso alla mia vita dirò sempre che il giorno più felice che ho vissuto è oggi, perché ogni giorno il Signore mi dona la possibilità di incontrare la felicità che è Lui stesso. Cosa vogliamo di più?».