Il 5 agosto di cinque anni fa il cuore immenso di una montagna nel deserto cileno di Atacama si spezzò. Imprigionando in quel ventre duro e mortale trentatré minatori e imbrigliando nel dolore le loro famiglie. Settanta giorni dopo, era il 13 ottobre 2010, scienza, intuito, coraggio, determinazione e solidarietà riuscirono a riportarli uno a uno in superficie, nel corso di un’operazione durata ventidue ore e seguita nel mondo da milioni di spettatori. Fu una vittoria del Cile, anche se parziale, perché la società mineraria che deteneva la proprietà di quella presunta bara naturale non fu perseguita e ne uscì pure lei, ma scandalosamente, indenne. La messicana Patricia Riggen ha lavorato per tre anni al progetto de
I 33 – film uscito in Cile l’agosto scorso per celebrare quei fatti, mentre in Italia sarà in sala a marzo distribuito da Warner, con Antonio Banderas e Juliette Binoche protagonisti – per sottrarre questa eroica vicenda di uomini e di speranza dal probabile oblio, dopo che i media l’avevano fatta esplodere sulle reti televisive in quei mesi di appassionato sostegno. «Ho creduto che quella dei trentatré minatori e di come riuscirono a sopravvivere fosse una storia importantissima da raccontare – spiega la regista –. Il fatto che più di un miliardo di persone l’abbiano seguita in televisione significa che aveva toccato una corda umana. Non importa che sia capitata in Cile, perché il suo valore è universale».
Il film racconta molti dei particolari della vita di questi uomini dispersi in una grotta, nel caldo soffocante, senza cibo e con il pensiero rivolto alla morte, mentre la fame e la disperazione si fanno ogni giorno più pesanti. «Penso che una delle cose più interessanti del film sia apprendere tutto quello che non sapevamo e di cui non ci siamo resi conto neppure dopo. Noi vivevamo soltanto delle notizie che ci arrivavano durante quelle settimane, ma tutto quello che è accaduto veramente nella miniera i minatori non lo avevano mai raccontato prima. Lo conservavano come un segreto e lo hanno confidato soltanto a noi e soltanto perché avremmo poi girato questo film».
Un ruolo importantissimo ebbero le famiglie, che non si rassegnarono ad abbandonare i loro cari. Riuscirono a piegare anche il fatalismo col quale all’inizio si affrontò la tragedia e a spronare il governo cileno ad intervenire. «Nel film ci sono come tre mondi: quello di fuori, esterno, delle persone coinvolte nei soccorsi e dei politici, appunto; poi quello delle famiglie, ossia mogli, sorelle, figlie e figlie che assediavano l’ingresso della miniera; infine, quello dei minatori, nascosto a tutti. Ho voluto raccontare queste tre storie diverse e tutti i personaggi che si ritrovarono coinvolti in questo miracolo».
La prima cosa che fece fu quella di incontrare e conoscere a fondo i veri protagonisti. «È stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita e che mi ha arricchito come essere umano. Da subito sono stati molto generosi e affettuosi con me, credendo nella mia onestà. Ci siamo riuniti, li abbiamo intervistati e mi hanno raccontato molti particolari fondamentali per scrivere e poi girare il film. Hanno anche partecipato attivamente alle riprese, lavorando con le comparse sul set, guidando i veicoli della produzione e facendo tante altre cose. E ora stiamo tutti insieme promuovendo il film nel mondo».
Il potere dei media, l’inerzia della politica, la forza delle famiglie e degli affetti. Nel film questi tre aspetti interagiscono sempre. «A questa storia hanno partecipato molte categorie di persone: i politici, i soccorritori e gli ingegneri, oltre che i minatori. Una cosa è importante: l’esempio che il governo cileno diede nel decidere di salvare a tutti i costi i minatori, investendo per questo soldi e risorse umane, soprattutto credendo che questo fosse possibile. Io sono messicana e posso dire che nel mio Paese hanno abbandonato molte volte i minatori quando una cosa simile è successa. E questo accade in molte altre miniere del mondo, i morti sono migliaia ogni anno. Il Cile è stato un esempio, perché si sono unite tutte le forze per cercarli, trovarli e salvarli».
È stato difficile lavorare a questo progetto? «Come donna è molto difficile lavorare nel cinema e ancora più difficile se devi girare un film con trentatré attori uomini dentro una vera miniera per trentacinque giorni di seguito e per quattordici ore al giorno, senza poter uscire, mentre spesso litigano tra loro. È stato necessario lottare molto, ho pianto parecchie volte, ma mai di fronte a qualcuno. E da quella miniera io sono uscita più forte».
© RIPRODUZIONE RISERVATA L’anticipazione La regista Riggen: «Nel mio film il dramma dei trentatré sepolti vivi e l’eroico salvataggio» Patricia Riggen
ROMA. I trentatré sopravvissuti alla presentazione del film
(Ansa/Claudio Onorati)