venerdì 27 marzo 2020
Romanzi e saggi di recente uscita fanno i conti con la condizione dell’individuo estraniato dal mondo. E in queste settimane diventano una guida esistenziale
Solitudine

Solitudine - Thamaor da Pixabay

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Colpisce che un libro così arrivi proprio adesso e che arrivi dalla Spagna, uno dei Paesi europei più colpiti alla pandemia da coronavirus. Si intitola Gli schifosi, l’autore è Santiago Lorenzo, uno scrittore fin qui inedito in Italia e ora tradotto da Bruno Arpaia per iniziativa di Blackie Edizioni (pagine 228, euro 18,60). Gli schifosi è la storia di Manuel, un giovane madrileno che desidera la compagnia degli altri senza mai riuscire a trovarla e che poi, travolto da un concatenarsi di circostanze sempre al confine con l’equivoco, preferisce vivere nascosto da tutti, in un paesino abbandonato che diventa il suo regno, il suo mondo. La sua isola deserta, in un certo senso, perché è evidente che il Robinson Crusoe è uno dei modelli del romanzo, con la non trascurabile differenza che, mentre il naufrago di Defoe fa di tutto per ricostruire qualcosa di simile a un consorzio sociale (anche l’alleanza con Venerdì non si esaurisce affatto nel rapporto tra servo e padrone), Manuel si persuade di averne abbastanza degli altri. Quando la quiete del borgo sperduto viene turbata dall’arrivo di una chiassosa famiglia, spregiativamente indicata come «i Caciarri », il fuggitivo si trasforma in giustiziere, prende di mira gli intrusi, li costringe alla resa. Gli schifosi, insomma, è il racconto di una solitudine che diventa isolamento. Sono due parole che ripetiamo spesso in questi giorni, quasi a convincerci che si tratti di sinonimi.

Non è così, invece, come ricorda Mattia Ferraresi in un altro libro straordinariamente tempestivo, Solitudine. Il male oscuro delle società occidentali (Einaudi, pagine 226, euro 17,00) È un saggio molto documentato e ponderato, che però si è tentati di leggere come un instant book, tanto è puntuale la rispondenza tra l’analisi di Ferraresi e la cronaca delle ultime settimane. Basti pensare alle osservazioni sulla morte solitaria, «senza presenze al capezzale né cerimonie funebri», oppure al concetto di «epidemia» riferito a una serie di fenomeni che vanno dall’autoreclusione degli hikikomori al rancore violento del terrorismo identitario (fra i casi esaminati c’è anche quello di Breton Tarrant, il responsabile della strage di Christchurch attualmente sotto processo in Nuova Zelanda), dal ricorso alla pornografia come sostituto della sessualità fino al «Ministero della Solitudine» istituito dal Governo britannico. Proprio riferendosi a questo tentativo di contrastare l’«epidemia » Ferraresi sottolinea quanto la loneliness sia diversa dall’isolation e come, al di fuori di questa polarità fra solitudine soggettiva e isolamento oggettivo, si apra il territorio della solitude, che è erede diretta della solitudo classica: un appartarsi non in odio al mondo, ma alla ricerca di una più piena armonia con sé e con la realtà.

Paradossalmente percorsa dallo stesso Manuel degli Schifosi, quest’ultima è la strada dei monaci di ogni confessione e degli umanisti di ogni tempo, a partire dal precursore Francesco Petrarca. Nella sua conclamata irrazionalità, è l’ipotesi che più andrebbe presa in considerazione in questo momento. La solitudo, infatti, sembra rientrare in quel «mistero dell’altruismo umano» al quale accenna il biologo Edward O. Wilson in Le origini profonde delle società umane edito da Raffaello Cortina (traduzione di Allegra Panini, con una prefazione di Telmo Pievani, pagine XVI+134, euro 15,00). Se davvero siamo esseri sociali o, meglio ancora, «eusociali », come mai alcuni di noi rinunciano ai benefici assicurati dalla comunità per sacrificarsi al posto degli altri? Wilson cita il «monaco votato alla povertà e all’astinenza », appunto, e l’«eroismo estremo del soldato in battaglia », esempi ai quali oggi viene spontaneo aggiungere quello che viene dall’abnegazione di medici, infermieri, ricercatori, personale sanitario. Ciascuno di loro dimostra che solitudine e isolamento non sono scelte obbligate. Semmai, sono gli esiti di un condizionamento culturale che lo stesso Ferraresi ricostruisce in modo serrato e convincente. Sostanzialmente ignota fino a tutto il Medioevo (durante il quale aveva piena cittadinanza la solitudo spirituale), la solitudine così come oggi la intendiamo è un portato della modernità, le cui conseguenze erano già state prontamente intuite da Alexis de Tocqueville in alcune pagine cruciali di La democrazia in America (1835–1840). In quella sede, sottolinea Ferraresi, già si denunciano i limiti di un individualismo che, germinato da un «giudizio erroneo», induce il cittadino a «isolarsi dalla massa dei suoi simili e a ritrarsi in disparte con la sua famiglia e i suoi amici, in modo che, dopo essersi creato così una piccola società per proprio uso, abbandona volentieri a sé stessa la grande società». Le conseguenze non investono soltanto la sfera politico–istituzionale, ma finiscono per minare alla radice ogni domanda sull’alterità, delineando il profilo, peraltro ben note, dell’attualità spiritualità generica e priva di orizzonte religioso. Confinato nella dimensione dell’io, l’individuo ha perso il legame con il tu, che è il pronome della relazione, dell’incontro, della preghiera. E della poesia, come lo stesso Ferraresi lascia intendere nell’ultima parte del libro, nella quale l’appello a testimoni apparentemente assai diversi tra loro (Leopardi, Dante, l’iconoclasta Michel Houellebecq, a suo modo sempre tentato da Dio) riconduce a una comune apertura di senso capace di spezzare le ristrettezze dell’individuo solitario e isolato.

C’è una soglia da superare, e quella soglia può essere mostrata anche dalla letteratura, come sostiene Benedetta Centovalli in La stanza di Emily (Mattioli 1885, pagine 124, euro 14,00), elegante resoconto di viaggio dedicato a una delle più celebri recluse volontarie nella storia della poesia, la statunitense Emily Dickinson. «La soglia è la letteratura – scrive Centovalli –, la soglia è quel sì e quel no che la letteratura contiene, la sua obliquità, a cui Dickinson fa chiaro riferimento ( Tell all the Truth but tell it slant – “Di’ tutta la verità ma dilla obliqua –”), la sua ambiguità, l’angolo da cui guardare le cose». A questa condizione, anche nei nostri giorni segnati dall’emergenza e dalla preoccupazione, ogni stanza può svolgere la stessa funzione di quella di Amherst, nel Massachusetts, dove la poetessa trascorse gran parte della sua esistenza da adulta: «un osservatorio implacabile, una torre di avvistamento », lo definisce Centovalli, ma anche «una stanza delle meraviglie». All’estraniamento praticato da Manuel negli Schifosi, allora, si può contrapporre lo sguardo, quella che l’anonima protagonista di Doppio vetro dell’islandese Halldóra Thoroddsen (traduzione di Silvia Cosimini, Iperborea, pagine 110, euro 15,00) pratica dalla finestra della sua casa di Reykjavík, fino a comprendere che «l’esperienza non le arriva più di riverbero, lei è l’esperienza». «La mia nascita è quando dico un tu», cantava Attilio Capitini, il pensatore e poeta la cui testimonianza corre sottotraccia a uno dei più bei libri di critica letteraria degli ultimi tempi, La gloria della lingua di Daniele Piccini (Scholé, pagine 128, euro 12,50). Tenere a bada l’io, dare spazio al tu: che sia questo l’unico, il vero antidoto contro la solitudine?

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