Con una delle più serrate
explications du texte, basata sulle formule consacrate dell’esegesi scritturale, Dante – impiegando i passi dell’evangelista Luca – non esita a mostrarsi contro i decretalisti e la consuetudine ierocratica, denunciandoli di essere «come spade alla Scrittura» o peggio ancora, con più forte immagine, di non temere a sposare, a «tòrre a ’nganno» «la bella donna [la Chiesa], e poi di farne strazio» (Inferno XIX 56-57). È uno dei magistrali impieghi della tecnica esegetica che proprio nel nome di Luca evangelista compare di frequente in Dante. E di fronte a un numero di occorrenze così folto, a una conoscenza puntuale e all’impiego capillare che Dante fa dell’autore del terzo Vangelo e degli Atti, non si può non riconoscerlo tra le fonti più utilizzate da parte del poeta. Luca,
scriba Christi qui omnia vera dicit, è certamente da considerare l’evangelista prediletto dell’Alighieri che, iscritto all’Arte dei medici e degli speziali, aveva forse un’ulteriore ragione per eleggere il
carissimus medicus di san Paolo. Soprattutto è proprio Dante nel
De Monarchia a consacrarlo per sempre come
scriba mansuetudinis Christi. E costituisce certamente una scelta significativa che le letture per le domeniche del tempo ordinario nel corso dell’Anno giubilare indetto da Papa Francesco verranno tratte dal Vangelo di Luca, l’«evangelista della misericordia». L’autore del terzo Vangelo non aveva conosciuto né aveva mai visto Gesù. «Non vide il Signore nella carne», riferisce il
Canone muratoriano (un elenco ragionato dei libri del Nuovo Testamento scritto a Roma tra il 160-180). È l’unico, rispetto agli altri evangelisti, ad affermare di aver svolto un’inchiesta attraverso le fonti, con ricerche «accurate» (
akribòs), nell’intento di fare «un resoconto ordinato», secondo uno schema cronologico. Eppure, dei quattro è forse quello che ci ha lasciato le pagine più vivide e penetranti della sua umana vita terrena. Il suo Vangelo – scritto nel greco più classico di tutto il Nuovo Testamento – denota le raffinate competenze letterarie e le conoscenze storiche dell’autore, motivo per il quale Renan lo definiva come «il più bello». Al rigore della narrazione, nel rispetto delle fonti e della cronologia dei fatti accaduti, Luca unisce una sensibilità di sguardo che caratterizzano tutto il terzo Vangelo e lo decretano senza remore «narratore della mansuetudine del Cristo». Più degli altri è riuscito ad entrare nei risvolti dei «sentimenti di Cristo» verso gli uomini (cfr. Fil 2,5), secondo la nota dizione paolina fatta propria dall’evangelista dal diretto «sentire» dell’Apostolo delle genti e a riportarci con fine introspezione quei particolari nascosti, quei tratti appena accennati che rivelano i gesti di profonda compassione di Cristo Gesù, la sua tenerezza. La prima insistenza di Luca sta nell’oggi della salvezza. La radice verbale del verbo «salvare» è stata contata 25 volte nel Vangelo e 22 volte negli Atti. Nell’opera di Luca, Cristo assume un ruolo de- lineato: è l’espressione della bontà salvifica di Dio verso tutti. Il ritratto che ne emerge dal testo dà particolare rilievo alla sua bontà accogliente verso i lontani, gli stranieri, le donne, i malati, i pubblicani, le categorie sociali emarginate che il giudaismo ufficiale riteneva senza possibilità di riscatto. È caratterista del terzo Vangelo l’azione dello Spirito Santo e la gioia, la festa di «Dio che sa gioire» di ognuno che si lascia cercare e abbracciare, insieme ai poveri, che della buona novella sono i destinatari privilegiati. La predicazione di Gesù che si apre nel Vangelo di Luca proprio con il loro protagonismo: «Mi ha mandato a predicare ai poveri la buona novella» (Lc 4, 18), viene sottolineato come altro elemento tipicamente lucano. Luca esalta i poveri in quanto tali, omettendo – rispetto ai sinottici – «in spirito» nelle sue beatitudini. Motivo che è ampiamente ripreso da Dante nelle sue acri invettive nei confronti della Curia romana degenerata dal non conformarsi «secondo la forma del santo Vangelo». Di «Colui che è Sire de la cortesia» come lo dice Dante nella
Vita Nova (XLII, 3), Luca è l’unico a riportarne l’ultimo gesto di perdono prima di spirare sulla croce, mostrandone la misericordia fino alla fine in quell’attimo fuggente, descritto con intensità senza pari, e che solo è bastato al malfattore per rapire il Cielo (Lc 23, 42-43). Il ritrattista del Signore ne immortala lo sguardo quando si gira a guardare Pietro, dopo il suo rinnegato. È pittore della sua tenerezza nell’episodio della donna curva (Lc 13, 10-17). Così nel villaggio di Naim dove compie la prima resurrezione dai morti (Lc 7, 11-17) nel vedere la donna vedova portare al sepolcro il suo unico figlio. «Vedendola – scrive Luca – ne prova compassione», che nel testo greco è anche «turbamento». Attraverso le parole di Luca si sfiora quasi il silenzio di Gesù nel suo seguire con lo sguardo quella madre, quando avvicinandola piano le dice: «Non piangere». Un moto di comprensione profonda è il suo primo gesto, poi le restituirà il figlio vivo. Nel capitolo 15 questa predisposizione raggiunge un vertice dottrinale che ci svela in profondità il cuore di Dio. Sono le tre parabole della misericordia peculiari a Luca (la pecora smarrita, la dracma ritrovata, il figlio ritrovato), che parlano della conversione. Ma non qui tanto della conversione del peccatore incallito al perdono, quanto quella del giusto incallito alla misericordia, per usare un’espressione dell’abate cistercense Andrè Louf, che forse ricorda Pascal quando afferma: ci sono i peccatori e quelli che si credono giusti. Il fratello maggiore della parabola del Figlio prodigo si considerava giusto. Luca evidenzia lo sfogo irriverente del primogenito al padre che chiama il fratello con sprezzante distacco «questo tuo figlio», accusandolo di aver sperperato il patrimonio, e che esprime la logica di coloro che si ritengono creditori di Dio per la loro rigorosa osservanza della legge e si fanno estranei al cuore del padre. Se infatti nella prima parte (vv. 11-24) la parabola ha un senso compiuto mostrando il motivo della misericordia divina come espressione dell’amore incondizionato del Padre che non vuole la morte del peccatore, la seconda parte (vv. 25-32) rappresenta la risposta di Gesù alle mormorazioni degli scribi e dei farisei – a causa dell’accoglienza da lui riservata a «tutti i pubblicani e ai peccatori » – i quali si comportano come il fratello maggiore, in contrasto con la volontà e la bontà salvifica di Dio. Il verso 20 della parabola segna il culmine del racconto di Luca: il figlio perso intraprende il cammino del ritorno. Il padre è lì ad aspettarlo. Quando lo vide da lontano, le viscere paterne furono sconvolte: il verbo usato da Luca
esplagchnìsthe («commuovere») al centro del racconto ha un retroterra linguistico nell’ebraico
rahamim, che indica l’utero materno (Is 49,15: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere»). «Commosso gli corse incontro» (Lc 15,20). Paterno amore materno di Dio. Non coglie forse nel vero Rembrandt quando raffigura nella sua celebre tela una delle mani del padre che abbraccia il figlio ritrovato come quella di una donna? E ancora Papa Luciani quando disse: «Dio è Padre; di più: è madre»?