Riguardo ai social media Jaron Lanier non ha mezze misure. Bisogna uscirne. Da tutti e alla svelta. Come ha fatto lui. Il programmatore, artista e musicista californiano, pioniere della realtà virtuale, oggi ricercatore alla Microsoft, è autore già di numerosi volumi critici sulla tecnologia, uno dei più noti il profetico Tu non sei un gadget (Mondadori, 2010). Nel recente Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social (Il Saggiatore, pagine 211, euro 10,00) mette in fila uno per uno i motivi che dovrebbero indurre chiunque a seguire il suo esempio. Si va da “I social media stanno minando la verità” a “I social media stanno distruggendo la tua capacità di provare empatia”, fino al lapidario “I social media ti rendono infelice” perché, come recita la Ragione numero 10, «ti odiano nel più profondo dell’anima ». Oggetto dell’invettiva di Lanier non sono tanto gli strumenti in sé quanto piuttosto l’“Economia dell’attenzione” che ne è alla base e che implica la necessità di attrarre gli utenti per un tempo più lungo possibile in modo da proporre loro pubblicità e prodotti. Il che ha un’immediata, sinistra conseguenza, come si spiega nella Ragione 1, ovvero: «Stai perdendo la libertà di scelta».
Perché ha deciso di scrivere questo libro proprio adesso? Che cosa è chiaro oggi che invece non lo era fino a poco tempo fa?
«In realtà mi occupo di questo argomento da parecchi anni. Ma ora sta succedendo qualcosa di strano. In luoghi molto diversi e lontani fra loro si riscontrano problemi simili: la politica sta impazzendo, le persone si rinchiudono sempre di più in gruppi ristretti, tribali, che faticano a confrontarsi con gli altri e si nutrono di paure e ansie spesso immotivate. Prima si trattava di fenomeni isolati, adesso lo stesso schema si ripete ovunque. Ciò è dovuto in buona parte al fatto che il modo in cui le persone s’informano e comunicano oggi è governato da un modello di business basato sul catturare e mantenere l’attenzione. E suscitare emozioni negative, come rabbia e paura, è il modo migliore per tenere agganciate le persone fino a favorire forme di vera e propria dipendenza. Così i social media sono diventati veri e propri “Imperi di modificazione comportamentale”: contribuiscono a renderci più irritabili, ansiosi e diffidenti gli uni verso gli altri. E questo sta producendo conseguenze negative non soltanto in politica ma anche sul benessere personale e delle nostre famiglie».
Quali sono queste conseguenze negative?
«In modo quasi impercettibile questo sistema, in cui la merce di scambio è l’attenzione, altera il nostro carattere. Tendiamo a diventare competitivi, a volte aggressivi. Già nei primi anni della Rete, quando ancora in pochi la frequentavamo, questo rischio era evidente. A volte io stesso mi sorprendevo a litigare senza motivo, per cose stupide, cercavo di guadagnare punti, di competere. Più di recente mi sono ritrovato in una situazione simile quando collaboravo con il sito d’informazione Huffington Post: ho notato che lentamente avevo cominciato a scrivere cose di cui non ero convinto solo perché sapevo che era quello che la gente voleva sentire o che avrebbe provocato una discussione. Ognuno di noi ha un “troll” interiore (il troll è quel soggetto che interviene sul Web in modo irritante e aggressivo, con il solo scopo di infastidire, ndr) che in alcune circostanze ci porta a dare il peggio di noi. E purtroppo questo spesso avviene proprio nelle piattaforme online. Quando accade, la cosa migliore è andarsene. Il nostro carattere è una cosa preziosa. Non lasciamo che si rovini».
Nel suo libro lei paragona i social media alle vernici al piombo: qualcosa di dannoso per la salute che è poi stato sostituito da prodotti analoghi praticamente innocui. Qual è il “piombo” dei social media?
«È normale modificare il proprio comportamento: lo facciamo di continuo nelle relazioni con gli altri. I problemi nascono quando quest’alterazione è provocata da algoritmi e da manipolatori invisibili che ci sottopongono a una sorta di “ipnosi” per condizionare le nostre scelte. La cosa migliore sarebbe allora cancellare i nostri account fino al momento in cui non saranno disponibili versioni non “tossiche” degli stessi servizi».
Come immagina queste possibili innovazioni?
«Dobbiamo perseguire un modello che non sia basato sul continuo inganno: su Internet abbiamo creato un sistema che invece di commerciare direttamente i prodotti vende agli inserzionisti o ai politici la manipolazione dei comportamenti delle persone. In pratica puoi rendere la gente più triste, cinica, impaurita – sono i sentimenti negativi che funzionano meglio e sono anche i più facili da suscitare – e così indurla surrettiziamente a dare il proprio consenso a una certa parte politica piuttosto che a un’altra. Per cambiare tutto ciò dovremmo tornare a vendere direttamente i servizi, far sì che gli utenti paghino. Ci sono alcune sperimentazioni in atto, e devo dire che nella Silicon Valley adesso comincia a esserci un certo interesse verso di esse».
Andarsene non è una forma di resa? Non sarebbe meglio provare a cambiare i so- cial media standoci dentro e promuovendo comportamenti corretti?
«Io mi considero un insider della Silicon Valley e sarei molto felice se società come Facebook o Twitter migliorassero invece di doverle lasciare, ma è molto difficile: gli incentivi finanziari sono enormi ed è poco probabile che le aziende principali del settore in questo momento siano disposte a cambiare radicalmente il proprio modello di business».
Lei attualmente che servizi usa?
«Riesco a fare tutto ciò che mi serve soltanto grazie ai siti Web e all’email. Ho un sito piuttosto elementare ma serve allo scopo, e per comunicare uso la posta elettronica. Magari non è così divertente, ma funziona».
Cosa direbbe a un teenager per convincerlo a lasciare i social?
«Non penso che riuscirei a convincerlo e sinceramente rispetterei la sua decisione di usare come preferisce questi servizi. Ma una cosa gliela direi. Se vuole conoscere se stesso e capire che cosa desidera veramente deve mettersi alla prova. All’interno dei social media questo è molto più difficile: le persone non si rendono nemmeno conto di quanto profondamente il loro comportamento venga manipolato. Un ragazzo dovrebbe almeno passare un po’ di tempo al di fuori di quell’ambiente. Deve sperimentare in prima persona che cosa implica per lui la presenza sui social, e così prendere una decisione più consapevole».