Maurizia Cacciatori, classe 1973, ai tempi della Nazionale con cui ha giocato 228 gare. «La nostra Nazionale multietnica ha un valore sociale prima che sportivo Il ct Mazzant
«Alzare una palla per una compagna è un po’ come costruire un ponte sospeso sopra a un fiume popolato di piranha». In questa massima c’è tutta la vita intensa, complicata, meravigliosa e struggente di Maurizia Cacciatori. La ex baby prodigio della pallavolo italiana, giunta nel mezzo del cammino della sua vita («viaggio verso la cinquantina», dice tranquillamente, la carrarina, classe 1973) si racconta.
Lo ha fatto scrivendo la sua autobiografia Senza rete (Roi Edizioni. Pagine 215. Euro 18,00. Primo titolo della collana “Assist”, diretta da un altro campione, del calcio, Demetrio Albertini). Da palleggiatrice anarchica, «sono di quella terra, Marina di Carrara», eletta n.1 al mondo in Giappone (con il “7” dei grandi dello sport stampato sulle spalle) da amante delle biografie, («però non quelle dei campioni che ti raccontano dei cento gol segnati e dei crociati rotti, piuttosto preferisco quelle di donne rivoluzionarie, tipo Golda Meir o la mia amata Frida Kahlo») ha tracciato con profonda leggerezza il profilo di un talento che, dopo aver vissuto per due decenni sulle montagne russe dell’agonismo di altissimo livello («ma quello femminile, ingiustamente, è ancora considerato dilettantismo ») ora può rileggere la sua storia con la maturità della donna, che ha finalmente la sua rete sotto i piedi, e della mamma dei suoi due gioielli: i figli Carlos e Inès avuti con il marito, l’ex cestista Francesco Orsini, detto il “Botta”.
Ma prima di arrivare al finale di partita, c’è da raccontare una bellissima fiaba di provincia, iniziata a Carrara con il primo coach, Giuseppe Giannetti, in un palazzetto popolato di “elfi” come gli adorati custodi, Antignano e Romo-letto, con quest’ultimo che era costretto a stopparla sistematicamente: «Maurizia, basta mangiare pizza». A 16 anni si trasferisce a Perugia e debutta in A1 al PalaEvangelisti con la Sirio. A diciotto, con il frigo di casa sempre pieno e gli angoli di Perugia a disposizione per i suoi attimi di beata solitudine da trascrivere sul diario d’adolescente, alza la palla tre metri sopra al cielo e trova anche il suo primo trofeo, la Coppa Italia. Poi ha vinto tre scudetti con Bergamo, e altrettante Coppe Campioni, la terza in Spagna con il Tenerife con cui ha conquistato anche il 4° titolo nazionale in carriera. Dal ’91 entra in Nazionale e indossa la maglia azzurra 228 volte. Ma questi per lei sono dettagli irrilevanti.
Sfumature che appartengono a quella prima vita fatta anche di nomadismo a Sud seguendo le indicazioni di un procuratore saggio, Mauro Reguzzoni. «Ho giocato ad Agrigento e Napoli, luoghi e incontri indimenticabili. Scelte difficili? La mia forza è stata capire presto che i percorsi più facili mi avrebbero ridato indietro assai poco». Quindi, fughe per la vittoria. Fughe per allenare la sua sete di libertà, salendo su treni presi al volo all’alba, da Milano, magari solo per andare a bere un caffè nella Parigi del suo amato poeta Luis Aragon (« Sur le pont Neuf j’ai rencontré, è la mia poesia dell’anima») e tornare trafelata nel primo pomeriggio a Bergamo, in tempo utile per gli allenamenti «perché ero la capitana e dovevo dare l’esempio». Formidabili e luccicanti quegli anni, fatti di fan club adoranti, interviste e apparizioni in tv, di ritagli di giornali con titoli a otto colonne, di copertine dei settimanali, poster alle pareti delle camere dei tifosi di ieri.
«Tutti ricordi che, come certe foto ingiallite, sono finiti in cantina. In casa mia non c’è un trofeo esposto, al punto che i miei figli pensano che la loro mamma menta, non credono che io sia stata una pallavolista e per giunta una delle più forti. Carlos e Inès, che hanno appena vinto due medaglie nelle gare scolastiche di corsa, si sentono più forti e vincenti di me». Se la ride mamma Maurizia che in materia ha imparato tutto e e in fretta, tenendo a mente il monito del “profeta” del volley, il suo ex coach Julio Velasco. «La differenza tra perdenti e vincenti – ci disse – è che i primi cercano alibi, i secondi trovano le soluzioni». Filosofia di vita della migliore pallavolista italica degli anni ’90. La Cacciatori, il modello tecnico studiato nelle scuole-volley, la donna immagine di un movimento che da allora conserva il maggior numero di praticanti dello sport rosa.
«Quanto è cambiato, negli ultimi trent’anni il volley femminile? Tanto e per fortuna in meglio. Oggi nei palazzetti si assiste a degli autentici show. E in campo il livello fisico e tecnico è elevatissimo in gran parte d’Europa. La nostra Nazionale con l’ottimo lavoro svolto delle accademie del Club Italia rappresenta un modello sia dal punto di vista sportivo che sociale. La multietnicità che hanno portato le azzurre, quelle nate in Italia ma figlie di stranieri, è un messaggio importante che va oltre l’argento conquistato agli ultimi Mondiali... La risposta di Mirian Sylla a chi gli chiedeva del razzismo («Ma è come una persona che ti manda a quel paese dalla macchina, è uno stupido e basta») credo sia la “schiacciata” più bella che abbia mai vista e sentita».
E di schiacciate e schiacciatrici se ne intende, lei che ha cominciato con Guendalina Buffon, «la mia Guendy, la sorella del portierone, Gigi, che ho visto tuffarsi tra i pali che era un bambino», passando per la divina californiana Keba Phipps («se ha giocato a pallavolo è stato grazie a un benefattore che le ha pagato la retta di tremila dollari alla scuola superiore ») e chiudendo con Francesca Piccinini, «allora era la “piccina” della Nazionale, adesso è diventata la veterana e punto di riferimento per tutte le ragazze che amano la pallavolo ». La massese Piccinini a 40 anni se la gioca ancora, e «alla grande», con le ragazze di Casalmaggiore. La Cacciatori invece alla 33ª primavera sentì il fischio della sirena di chiusura.
«Ognuno deve fare i conti con se stesso, con la sua mentalità e anche con il proprio fisico perché la carriera di un atleta spesso dipende dalla variabile infortuni. Io ho detto stop perché sentivo che era giunto il tempo di uscire da sotto la luce dei riflettori accecanti e concentrarmi su me stessa, avere una famiglia, fare dei figli. Però rispetto e ammiro tanto quei campioni quarantenni come Roger Federer, Valentino Rossi, la stessa Piccinini e Gigi Buffon che alla loro età trovano ancora gli stimoli per confrontarsi con le nuove generazioni ». Ma di fatto anche Maurizia non ha mai abbandonato il campo, semmai ha solo cambiato “ruolo” e posizione. «Quando smisi dissi a me stessa che non avrei più voluto vedere un pallone da volley. Invece, ogni settimana sono al microfono di Dazn per commentare le partite di campionato e di Coppa. E tutto ciò che questo sport mi ha insegnato lo trasmetto nelle convention in cui vengo chiamata come “speeches” per motivare e sviluppare tematiche di leadership di un team. La comunicazione è innata in una palleggiatrice, è il ruolo che deve farsi sentire di più, dalle schiacciatrici fino all’allenatore».
Dei tanti allenatori avuti ricorda con affetto «il più completo, Angelo Frigoni... La Nazionale ora ha un grande ct: Davide Mazzanti è uno che guida delle ragazze fortissime, a cominciare da sua moglie Serena Ortolani, ma in gara diventano ancora più forti perché le fa sentire libere. Mazzanti è un esempio per tutti gli allenatori di ogni disciplina sportiva». L’anti-Bonitta, il coach che a un certo punto è diventato la sua “bestia nera” come spiega in un capitolo di Senza rete. «Ma averlo trovato nel cammino è stato importante per la mia crescita umana. Nelle convention spesso lo utilizzo per spiegare che c’è un “Bonitta nella vita di ognuno di noi” ma possiamo allenarci e arrivare preparati per liberarci da chi ci vuole sbarrare la strada. Io la penso come lo scrittore Julio Cortazar: “La vera profondità di un uomo è l’uso che fa della propria libertà”».
È sempre stata una donna libera Maurizia Cacciatori, specie adesso che dal tempo delle inquietudini è al time out della maturità. «Quando ripenso alle tante partite giocate mi viene in mente quel Gran Prix in India. A Madras, ho avvertito forte la disuguaglianza tra noi privilegiati, alloggiati in alberghi extralusso e lì ad un passo, sulla strada, i bambini poveri che bevevano l’acqua delle pozzanghere... ». Infanzia abbandonata, quella che mamma Maurizia non vuole più vedere e per cui lotta ogni giorno. «Il mio obiettivo principale oggi è essere una madre sempre presente, un punto di riferimento sicuro. Carlos e Inès non amano la pallavolo, preferiscono il tennis e l’atletica e io sono felice quando si divertono, perché lo sport deve essere prima di tutto un gioco che fa stare bene con se stessi e con gli altri. La mia più grande sconfitta sarebbe non essere vicina ai miei figli. Loro sono la mia forza... L’unico rimpianto che ho, non sono i titoli mancati o le medaglie sfuggite all’ultimo punto, ma non essere diventata mamma quando ero più giovane. Avrei fatto più figli. Quanti? – sorride – Magari quanti una squadra di pallavolo».