venerdì 29 gennaio 2016
L'avvocato fiorentino che difende i Sioux Lakota
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«In questo preciso istante provo la stessa infelicità e sofferenza fisica che oltre trecento tra uomini, donne e bambini dovettero sopportare durante il tragitto attraverso le tormente del Sud Dakota...». È il racconto straziante che Leonard Peltier fa nel suo libro La mia danza del sole. Scritti dalla prigione (Fazi), ricordando il massacro di Wounded Knee Creek, 29 dicembre 1890: lo sterminio di trecento Miniconjou per mano dei soldati del Settimo Cavalleggeri, il corpo armato che era stato agli ordini del generale Custer. Quelle urla disperate, Alessandro Martire le riascolta ogni giorno; e si commuove al pensiero del tanto male che è stato fatto a quella che chiama «la mia gente». Sembrerà strano, ma l’unico vero “indiano” rintracciabile in Italia, vive e opera alla periferia di Firenze: la casa-studio dell’avvocato e antropologo si trova a Campi Bisenzio. Martire non è certo un cognome da nativo americano, «ma nelle mie vene – assicura – scorre sangue Lakota». Discendenza derivata dall’illustre antenato, Pietro Martire d’Anghiera, storico spagnolo di origine italiana che, dopo aver servito il cardinale Ascanio Sforza e l’arcivescovo di Milano Giovanni Arcimboldi, venne incaricato dalla regina Isabella d’Aragona di redigere i Diari di Cristoforo Colombo di ritorno dai suoi tre viaggi nel Nuovo Mondo. «Nell’ottava “Decade” del De orbo novo – l’originale in latino è conservato alla Biblioteca Vaticana – Pietro Martire (informato da Colombo) per primo denunciò gli eccidi dei nativi, i quali pur di non cadere nelle mani dei Conquistadores preferivano suicidarsi assieme ai loro bambini».  Questo, Alessandro Martire già lo sapeva anche prima di partire per gli Stati Uniti. «L’America, e ciò che resta del suo vero popolo, l’ho scoperta a diciotto anni, nel 1978. Dopo la maturità mi iscrissi a un corso della Columbia University e feci una tesi sugli indigeni nordamericani». Sul sentiero tracciato dagli avi e la tante letture, a partire dal De orbe novo , si appassiona alla magnifica e misterica cultura delle tribù indiane, ma soprattutto inizia ad occuparsi del loro tragico destino. La scoperta delle riserve di Rosebund e Pine Ridge (Sud Dakota) lo ha messo in contatto con gli anziani Lakota Sioux e dai loro racconti ha ascoltato la viva voce degli spiriti che reclamano ancora «giustizia», per quello che considera «il maggiore olocausto». «Nei giorni della Memoria, giova ricordare che, in termini numerici, il più grande genocidio è quello dei nativi americani a causa di quell’assurdo piano violento che è il “Termination Act”. Dalla scoperta dell’America, 1492, ai giorni nostri, sono state sacrificate ottanta milioni di vittime innocenti tra i nativi americani». Martire non trattiene le lacrime, accende un talamo e invita gli ospiti a fumare, sospirando in lingua lakota: «Mitakuye oyasin » («Siamo tutti fratelli »).

Ed è tra i suoi «fratelli» che l’avvocato fiorentino torna ogni anno, accolto come il figlio adottivo di «Swnka Cangi», “l’uomo sacro” Leonard Crow Dog senior, che con Frank Fools Crow diede vita al movimento di resistenza pacifica che nel 1973 occupò il territorio di Wounded Knee. «Questi due uomini straordinari per 93 giorni occuparono le loro terre espropriate arbitrariamente e lo fecero pregando Wakan Tanka, il Grande Spirito, che non è poi così distante dalla nostra concezione del Dio cristiano».  Il grido di battaglia di Leonard Crow Dog senior ha ridato voce a quegli indiani «che nell’immaginario dell’uomo bianco sono da sempre dipinti come sporchi, cattivi, ladri di cavalli e scotennatori», sottolinea Martire, e nel 1978 con l’ “Indian freedom religious act” ha permesso la riabilitazione del rito autosacrificale della “Danza del sole”, che era stata proibita nel 1890. «Sono state ventidue le “Danze del sole” a cui mi sono sottoposto sotto lo sguardo dei Wichasha Wakan – gli uomini spirituali – e questo mi ha fatto guadagnare la piena fiducia del Consiglio Tribale, il corrispettivo del nostro Parlamento, dal quale sono stato nominato membro onorario della Nazione Sioux. Sono il primo uomo bianco che è giuridicamente riconosciuto come appartenente al gruppo etnico dei Lakota», dice con orgoglio Martire alias «Oyatenakicijipi » («Colui che parla per la sua gente»). È il nome con cui viene salutato nella riserva di Cheyenne River, da dove è appena tornato. Lì vivono gli ultimi sopravvissuti delle nazioni Oenunpa, Shisapa, Itazipco e Mnicojou. «Una comunità di ottomila persone, dotati di regolare tessera che certifica l’appartenenza in quanto possiedono un quarto di sangue Lakota… È il loro bene più prezioso, perché in queste riserve, simbolo della “apartheid” americana, si riscontra il più alto tasso di povertà, di alcolismo e di malati di diabete di tutti gli Stati Uniti. Oltre alla maggiore mortalità infantile e il numero di suicidi giovanili. E tutto questo indica che la “Termination Act” non si è mai arrestata, nonostante il nostro accorato appello alle Nazioni Unite». Nel 2000 infatti, Martire in qualità di responsabile legale dei Lakota ha varcato la soglia del Palazzo di Vetro. «Fu una giornata storica. Grazie alla Regione Toscana, con l’Aiccre (Associazione italiana comuni e regioni d’Europa) nel 1999 abbiamo redatto il primo documento che denunciava il governatore del Sud Dakota per l’esproprio arbitrario di ottocento chilometri quadrati delle terre - lungo il fiume Missouri - di proprietà dei Lakota. Quella battaglia legale non solo l’abbiamo vinta, ma un anno dopo la Nazione Lakota per la prima volta è stata accreditata all’Onu per parlare liberamente della nostra grande cultura».  Una cultura ricca di storia e di tradizioni, che Martire continua a divulgare in Europa pubblicando libri come I leggendari guerrieri delle praterie (Altravista) e Siamo tutti fratelli( L’età dell’Acquario) attivando continui scambi tra l’Università di Firenze e la Lakota Sicangu di Rosebud. «Nonostante l’indigenza e i tanti problemi, nelle riserve continuano a sbocciare scrittori (Vine Deloria), musicisti (John Trudell), attori (il leader spirituale Moses Brings Plenty), campioni di pugilato che si allenano nella “Sunkmanitu Oti” (“La tana dei lupi”) di Joe Brings Plenty. Dalle frequenze dell’emittente della riserva, Killi Radio, passano queste voci che fanno ancora sperare in un futuro migliore. Del resto Toro Seduto ha detto: «Quando finiscono i sogni, finiscono le speranze».
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