
Franco Battiato, nelle sue tante evoluzioni
È la prima pubblicazione della Fondazione nata l’anno scorso e presieduta dalla nipote Cristina Battiato. È appena uscita per Mondadori, s’intitola "All’essenza" (pagine 372, euro 24.00) ed è curata dal giornalista Giordano Casiraghi, amico e cultore della prima ora di Franco, fin dall’album Fetus che all’inizio del 1972 ha sancito il primo atto ufficiale della multiforme carriera artistica del genio siciliano, nato a Ionia (Riposto) ottant’anni fa, il 23 marzo 1945. Da quasi quattro anni (è morto il 18 maggio 2021) l’“essenza” evocata dal libro è apparente assenza. Sì, perché mai come con Battiato, nella «dimensione insondabile» del suo lascito artistico e spirituale, la scomparsa non ha attenuato la percezione di una sua reale presenza. Proprio in virtù dell’“essenza” dei suoi messaggi esistenziali, che il libro racchiude ed effonde appieno in una sorta di antologia autobiografica. Qui c’è tutto il Battiato-pensiero, grazie alle innumerevoli interviste rilasciate in quasi mezzo secolo e ad alcuni scritti per le copertine dei dischi, le presentazioni di eventi e rassegne o interventi per pubblicazioni varie (qui sotto presentiamo il testo commissionato da monsignor Rino Fisichella per il numero del marzo 2007 della rivista “Nuntium” della Pontificia Università Lateranense). Un’immersione affascinante e avvincente nei meandri della creatività e della complessa personalità di Battiato, serio e ironico, leggero e contemplativo, aperto e misterioso nel contempo. C’è tutto: la Sicilia, l’infanzia, Milano, la musica, il cinema, gli amici, i colleghi, il dolore, il denaro, la politica, il silenzio, la solitudine, le amicizie. Totalmente persona e, ancor più, anima. Non a caso ha chiuso la sua carriera nel 2015 con l’emblematico Le nostre anime e il suo ultimo inedito pubblicato è stato quattro anni dopo Torneremo ancora, uscito però quando di fatto non era più attivo a causa della malattia. «Le nostre anime lo considero l’ideale vertice della mia ricerca musicale e spirituale - ebbe a dire -, il punto in cui si è finalmente liberi dalle passioni e dai desideri legati al corpo, si può gettare quell’inutile armatura che è l’ego e guardare all’anima. E’ la canzone che mi rappresenta di più, perché tendo all’aldilà, tento di andare all’aldilà». Un altro brano essenziale e totalmente ispirato è L’ombra della luce, uscito nel 1991, «una specie di preghiera», spiegò, con «un percorso compositivo che si è sviluppato nell’arco di sei mesi, in uno stato di meditazione con l’accompagnamento di un armonium». E confida: «Mi sono molto commosso al pensiero di avere spinto delle giovani al ritiro in un convento. Non penso di essere stato un fattore determinante per scelte così importanti e radicali. Diciamo che sono stato quella goccia che ha fatto traboccare il vaso… Ho ricevuto delle lettere di alcune suore carmelitane che mi raccontavano di pregare ascoltando L’ombra della luce». Battiato stesso trascorreva del resto ogni giorno del tempo in meditazione spesso proprio sulle note del suo brano: «Sono un meditativo, amo la concentrazione, amo le piccole cose. Se dovessi scegliere cos’altro essere, qualcosa di diverso da un musicista, vorrei essere un eremita». Del suo essere mistico e credente ha in ogni caso sempre parlato («Per me la religione è l’atteggiamento di sacralità verso la vita»), un cercatore di senso attraverso le molteplici espressioni della fede al di là delle confessioni religiose, pur riconoscendo le sue radici cristiane. «Il cristianesimo, il catechismo, fanno parte della mia cultura di base. Il latino che entra in Pasqua Etiope (brano contenuto ne L’era del cinghiale bianco del 1979, ndr) richiama quel mondo. Quando ero bambino un sacramento come la Comunione era importante. La Domenica delle Palme è un punto fermo per me e di conseguenza la Pasqua. Nella canzone ho aggiunto altri mondi spirituali che ho scoperto». La fede, la ricerca di Dio, la morte (contemplando anche il concetto di reincarnazione), affrontato nel libro Attraversando il Bardo in cui interroga religiosi e scienziati sul senso dell’esistenza e sul significato del passaggio finale . «La gente è frastornata dai luoghi comuni, non ultimo quello così deprimente che vuole i religiosi stupidi e gli atei intelligenti. Si perdona ad Einstein il fatto che credesse in Dio solo perché alla fin fine è pur sempre stato l’inventore della teoria della relatività, senza capire che è proprio dalla sua fede che son nate le sue scoperte scientifiche». E aggiunge: «La scienza mi appassiona quando non è ottusa. Il misticismo e la scienza oggi sono molto più vicini di quanto si creda, ma il buono scienziato deve avere l’umiltà di definirsi come colui che cerca e mai e poi mai come colui che sa, perché bisogna accettare che ci sono cose che non si possono sapere e che non hanno spiegazione». E in una società che ha quasi del tutto espulso l’idea della morte come elemento della vita, eccolo affermare: «Lo stratagemma finale per accettare di dover attraversare “la porta dello spavento supremo”? La fede. Non ne conosco altri. Ma, come diceva Wittgenstein, di ciò di cui non si può parlare è meglio tacere». Per aggiungere: «Ho detto in una canzone che si chiamava Il re del mondo: “il giorno della fine non ti servirà l’inglese”. La gente si dimentica che la morte arriverà, è inevitabile, inutile che cerchiamo di esorcizzarla, quello è il momento più importante e se durante la vita non fai delle cose che ti rapportano con la morte hai sprecato un’esistenza. Questo è il problema». Ed ecco allora l’invettiva contro chi calpesta la vita propria e altrui. «Povera patria è nata da un sentimento diretto. Ero stato colpito veramente in prima persona. Ho trasformato un dolore fisico in musica e parole. Quando canto di quei corpi in terra senza più calore ho pensato anche a Borsellino e Falcone. E’ una canzone che avrei preferito non aver scritto. È sconfortante come non si senta più pietà per l’essere umano». Mai indulgente con i politici, poi, di cui è stato brevemente “collega” (dimissionario) da assessore alla cultura della Regione Sicilia: «Naturalmente io non sono all’altezza per dare ricette, nemmeno teoriche, per sistemare lo Stato. Ma dico che ci vuole una sostituzione radicale che chiami al potere teologi, grandi letterati, scrittori, pittori, scultori, attori. Tutti, ripeto, meno che i politici». Fondamentale dunque per Battiato la dimensione etica: «Stiamo regredendo sul piano dei valori fondamentali. Bisogna recuperare l’insegnamento e il buon esempio da parte delle famiglie e della scuola. Ma vedo in giro genitori incapaci e disorientati. Dominano i neoprimitivi, ignoranti che guardano soltanto partite di calcio e sciocchezze varie in Tv». Ed echeggia solenne l’inno all’amore nella dimensione della “cura”. «Ne La cura non viene mai pronunciata la parola amore, perché ne racchiude vari tipi, come tra padre e figlio, per esempio. Nel caso di una relazione classica, invece, c’è di mezzo il sesso, che fa da discriminante». Ritenutosi «più un cantante che un cantautore» e «più un musicista classico che pop» di sé desiderava che «rimanesse un suono, quale vibrazione di quello che sono».