«Emergenza antropologica: per una nuova alleanza tra credenti e non credenti» è il titolo del volume edito da Guerini e Associati (pagine 152, euro 16,50) in cui Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti e Giuseppe Vacca hanno raccolto i contributi scaturiti dalla pubblicazione su «Avvenire» del 16 ottobre 2011 di una loro lettera aperta e controcorrente sulla necessità di dialogo fra sinistra e mondo cattolico a partire dalle più scottanti questioni bioetiche e antropologiche affrontate dal magistero di Benedetto XVI. Non a caso c’è chi ha parlato di «marxisti ratzingeriani». Per approfondire il dibattito «Avvenire» ha promosso una serie di incontri tra ciascuno dei quattro firmatari e altri importanti intellettuali. Dopo la conversazione di mercoledì scorso fra Vittorio Possenti e Mario Tronti, ora dialogano Paolo Sorbi e Mauro Magatti.La «lettera aperta» sull’emergenza antropologica è di poco più di un anno fa. La questione a sinistra resta sostanzialmente rimossa come allora?SORBI: «In quel "manifesto" nato dal mio incontro con tre interlocutori che sono parte importante della storia della sinistra italiana hanno trovato espressione alcune tra le principali correnti culturali protagoniste del movimento operaio e della tradizione comunista italiana, con la presenza non secondaria di cattolici come me. Reincontrarsi quarant’anni dopo ha consentito di intrecciare i tormenti di ciascuno di noi su una questione tanto decisiva come quella della vita umana. Abbiamo così trovato una sintonia imprevedibile ma naturale, nella preoccupazione incubata da tutti e quattro lungo strade diversissime sul peso dell’emergenza antropologica nella crisi della democrazia, in Italia e su scala internazionale. Occorre che nella sinistra si elabori una vera riflessione sul legame tra i nodi socio-economici e la questione educativa».
MAGATTI: «Non mi ha stupito trovare in calce alla lettera quattro firme che esprimono una generazione nata tra gli anni ’30 e ’40, sensibilità protagoniste della sinistra in un periodo storico nevralgico come quello tra i ’60 e gli ’80. La sinistra ha attraversato una profonda trasformazione a partire da cause esterne – la crisi dell’Unione Sovietica – e interne – ciò che si è originato culturalmente col Sessantotto, dando poi vita al modello socio-economico espresso nella soggettività. Abbandonata l’utopia degli uguali, la sinistra italiana ha cominciato a coltivare un mito di tutt’altro genere radicalizzando specularmente il tema della diversità e il diritto soggettivo illimitato, deriva poi divenuta prevalente. Col risultato che su alcune grandi questioni la sinistra sorvola con impressionante leggerezza».
Perché la "questione antropologica" oggi pare una fissa della Chiesa mentre la sinistra ne fa prevalentemente un fatto di diritti?MAGATTI: «Abbiamo conosciuto da un lato la destra liberista e la sua esaltazione del mercato e della deregulation, dall’altro l’ipersoggettivismo di sinistra: due correnti che si sono combattute aspramente, ma che alla fine vanno dalla stessa parte contribuendo al medesimo risultato come due ali di un solo processo culturale. Ci sono ampi varchi su temi quasi abbandonati a proposito dei quali la Chiesa si è pronunciata con messaggi erroneamente còlti come problemi "di parte" mentre sono temi di tutti, sui quali le democrazie hanno il dovere di riflettere per giungere a risposte oggettivamente difficili».
SORBI: «Occorre passare dalla cultura dei diritti alla cultura della responsabilità. Nella prima sono compresenti due anime, entrambe di sinistra: quella centrata sul popolo e un’altra di radice azionista e radical-borghese, più attenta all’egemonia dell’individuo, legata all’illuminismo e alla rivoluzione francese più che al proletariato. L’etica della responsabilità può recuperare la cultura dei diritti se al centro si colloca la persona umana, non solo in senso individualistico ma relazionalmente vissuta: solo allora nascono infatti legami e solidarietà, motori di sviluppo sociale. Dentro il prevalere nella sinistra dell’una o dell’altra anima c’è tutto un modello educativo e un modo di fare società».
Com’è potuto accadere che la sinistra abbia sposato la cultura del soggettivismo individualistico?MAGATTI: «L’accesso generalizzato al benessere economico di milioni di persone in Europa e Nord America negli anni ’60 e ’70 ha fatto emergere l’istanza di soggettività di cui il Sessantotto è stata la punta dell’iceberg. Chi ha meglio interpretato il fatto che stessero prevalendo le domande dell’individuo è stata l’organizzazione capitalistica. E la società si è strutturata attorno al diritto a consumare, non solo beni materiali ma anche esperienze».
SORBI: «Non era (e non è) detto che dovesse prevalere questa lettura... Dentro il passaggio dalla produzione al consumo, e poi nel fenomeno della globalizzazione e del dilagare delle nuove tecnologie della comunicazione, era ed è possibile un’altra dinamica. La crisi della sinistra e il collasso del suo pensiero, completato con l’irruzione della cultura liberal-radicale giunta ora all’egemonia, hanno prodotto un falso scontro tra una destra e una sinistra in realtà fatte della stessa pasta culturale. Ne è risultata l’emarginazione del tema decisivo per chi vuole immaginare un modello sociale alternativo al capitalismo: l’uomo come persona sin dal concepimento, un assunto razionale e non religioso. È questo il perno che può mettere in crisi un certo modello sociale basato sull’accumulazione. A sinistra, invece, ha finito col prevalere un’ideologia consumistica e individualistica, con un sindacato che si è addirittura mobilitato contro la legge 40...»
Libertà e diritti sono diventate parole d’ordine della cultura pubblica, e non solo della sinistra. Qual è il possibile argine a questa avanzata apparentemente incontrastabile?MAGATTI: «Non c’è una libertà senza responsabilità: la libertà non è l’acceleratore con la responsabilità come freno, ma la seconda è condizione per la sussistenza della prima. La libertà è sempre esposta all’autoannichilimento, e solo se è in relazione a qualcosa non è un motore che gira a vuoto. Diversamente, si finisce in quella condizione che il linguaggio biblico definisce come "perdizione": sei libero di andare dove ti pare, ma da solo ti perdi. Ecco: oggi ci siamo persi. Abbiamo attraversato la stagione adolescenziale in cui ci si sente padroni del mondo, una fase inevitabile che però a un certo punto induce a fare i conti con i propri limiti per capire che gli altri non sono un ostacolo ma una risorsa. Alla fine dell’adolescenza ci si ritrova a un bivio: la stagnazione, cioè la ripetizione all’infinito dei medesimi comportamenti, oppure la generatività, cioè la consapevolezza che la libertà ha di se stessa imparando a essere responsabile. La crisi delle democrazie richiede che si esca dal delirio adolescenziale nel quale si sono compiaciute le culture di destra e di sinistra. Occorre anzitutto educare la libertà perché ampli gli spazi per giocarsi in qualcosa e non solo bruciarsi nel consumo delle opportunità e delle esperienze».
Oggi in cosa consiste l’antropologia della sinistra?SORBI: «Vedo frammenti antropologici, e una ricostruzione da compiere a partire dal tema rimosso della "cultura del limite" al quale sembra guardare con rinnovata consapevolezza la generazione dei 35-40enni: tra noi più avanti con gli anni e questi esponenti più giovani c’è il vuoto di una generazione. Negli ultimi 30 anni la sinistra si è appassionata alle "differenze", cioè alle minoranze. I credenti che pongono in modo razionale la questione educativa e antropologica ormai lo fanno in quanto minoranza, ma i contenuti che pongono non sono presi in considerazione. La sinistra fallisce qui su un aspetto decisivo, cioè il saper porre gerarchicamente le questioni sollevate dalle varie minoranze dando ampio risalto invece a istanze che trovano ampio ascolto, come quelle della comunità omosessuale. Manca un criterio per selezionare e ordinare le varie spinte della società civile».
MAGATTI: «Le grandi questioni etiche e sociali stanno dentro la cornice della razionalizzazione tecnica, che negli ultimi 30 anni ha fatto registrare effetti rilevanti sul terreno della vita e della globalizzazione. È qui che si è affermato il pensiero filosofico per il quale ciò che si può fare è in sé legittimo, con una rimozione impressionante del tema etico. E la Chiesa che lancia interrogativi sulle frontiere della vita viene accolta con insofferenza, senza capire che pone la grande questione del limite e della legittimità di ciò che si può tecnicamente fare. La sinistra sul punto pare aver perso capacità critica: inserita nel meccanismo che prevale culturalmente, non sembra accettare il limite non come perdita della libertà ma come suo responsabile passo in avanti».
Come si ripristina un confronto aperto e non ideologico sull’uomo?SORBI: «Mi pare decisiva quella che chiamo "cultura della rinuncia": saper trovare una mediazione laica sulle grandi questioni etiche che ci fronteggiano».
MAGATTI: «L’attuale crisi pone davanti a un bivio: le democrazie avanzate per reggere la concorrenza internazionale sono portate a radicalizzare il dominio della tecnica e, poi, a efficentizzare anche l’essere umano. È una strada che, passo dopo passo, si rischia di imboccare senza rendersene conto. L’alternativa è confrontarsi con la realtà, riaprendo terreni di incontro su ciò che abbiamo di comune. La domanda necessaria (e rimossa) dovrebbe essere: ci siamo liberati per fare cosa? I due secoli che ci hanno preceduti si sono posti il problema di liberarsi da qualcosa, ora il problema è cosa farsene della nostra libertà senza renderla sterile o autodistruttiva. Se non ci poniamo queste domande, la tecnologia deciderà per noi».