lunedì 7 ottobre 2024
In “Opera senza nome” di Calasso l'analisi della nostra società secolarizzata, dominata dalla nuova religione capitalistica: «Il presente è una mistura micidiale di irreligiosità e bigotteria»
Roberto Calasso (1941-2021)

Roberto Calasso (1941-2021) - WikiCommons

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«Non so se gli undici libri, fino a oggi, di cui qui si parla possano aspirare, come Opera senza nome, alla primavoltità. Ma non ho ancora trovato un precedente. Continuerò a cercarlo. La primavoltità è solo la sobria constatazione che qualcosa non c’era prima. Sta al lettore decidere che farne». Con queste parole Roberto Calasso chiude il suo libro Opera senza nome (Adelphi), il dodicesimo di una Opera della quale questo volume è molto più di un indice ragionato o di una mappa. È probabile che l’aspirazione a quella forma di originalità che Calasso chiama “primavoltità” - riprendendo un neologismo di Roberto (“Bobi”) Bazlen, il co-fondatore di Adelphi di cui Calasso raccolse giovanissimo il testimone ideale e professionale - non sia rimasta soltanto una aspirazione. Perché Calasso è uno scrittore originale, forse eccezionale, creatore di un stile personalissimo i cui i materiali, lavorati con prosa mirabile coloratissima eppur sobria, sono la mitologia greca in dialogo con la letteratura contemporanea (da Baudelaire a Kafka), la Bibbia intera e molti testi sacri orientali; e anche perché ogni opera che sia frutto di creatività autentica e sorgiva è per sua natura primavoltità, anche se lo è in modi e gradi diversi, se è vero che la creatività è tale se introduce l’inedito, che è una sua originale prima volta. Il grado innovativo di Calasso è comunque davvero notevole. La sua opera somiglia (ed è diversissima) allo Zarathustra di Nietzsche, ad alcuni racconti di Borges, a qualche pagina del suo amatissimo Kafka, o a Le Città invisibili di Calvino, il quale recensendo La rovina di Kasch, la prima opera dell’Opera di Calasso, aveva genialmente scritto: «La rovina di Kasch parla di due argomenti: il primo è Talleyrand, il secondo è tutto il resto».

Questo libro Calasso lo ha scritto alla fine della sua vita, avendoci lasciato il 28 luglio del 2021, poco tempo dopo il primo e unico colloquio che ebbi con lui nel suo storico studio nella sede dell’Adelphi a Milano, un dialogo su Bibbia e cultura che resta stella luminosa nel mio lavoro. Opera senza nome è comunque uno di quei “libri unici” di cui Calasso parlava, quelli che coincidono «perfettamente con qualcosa che è accaduto, un’unica volta, all’autore… e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto» (Libri unici). Un’opera che voglia spiegare e commentare undici libri pubblicati in un arco di quasi quarant’anni è per sua natura complessa, anche se i libri fossero quelli di un economista o di un professore di teologia morale. Una complessità che diventa estrema se gli undici libri sono di Roberto Calasso, che ha inventato nuovi generi letterari e ha ridisegnato la forma del romanzo e del saggio; al punto che Amazon «aveva categorizzato Le nozze di Cadmo e Armonia come “accessori decorativi per la casa” e l’Innominabile attuale come “decorazioni per unghie”». Non è necessario aver letto tutta l’opera di Calasso per gustare Opera senza nome - sarebbe stato un pessimo libro, e questo Calasso lo sapeva troppo bene. Ci sono, infatti, molti temi e pagine che possono essere compresi e gustati anche da chi si avvicina solo ora all’autore, sebbene leggerlo con sulla scrivania alcune delle sue opere precedenti può aiutare molto in certi passaggi arditi - molto utili sono La Rovina di Kasch, l’Innominabile attuale e Il libro di tutti i libri.

L’immagine è uno dei temi ricorrenti, intrecciato con la “questione dei serpenti” presente in molte sue opere, in Ka (1996), Rosa Tiepolo (2006) e poi più ampiamente nel Libro di tutti i Libri (2019). Già nei primi capitoli del libro della Genesi troviamo il verbo “guardare”. Il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male era per Eva “piacevole da guardare”, un versetto che Calasso considera «un passo fondatore e protettore della pittura». E aggiunge: «ovunque dove si tratti di immagini, si incontra il serpente. O il ricordo del serpente». E qui Calasso utilizza serpente e immagine come spago per legare la Genesi con Mosè e l’esodo: «Il gesto di Mosé, quando brandì un serpente di bronzo e intimò agli Ebrei mormoranti di guardarlo - il gesto di Mosé fu la scoperta che il male può essere guarito dalla sua immagine. Anzi, che il male può essere guarito soltanto dalla contemplazione della sua immagine». Il riferimento biblico è all’invasione di serpenti velenosi nell’accampamento del popolo fuggito dall’Egitto, che Mosè sconfisse utilizzando il serpente di bronzo: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita... Quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita» (Numeri 21,6-9). Un uso omeopatico dell’immagine - il simile si cura col simile -, non raro nell’Antico Testamento, da Davide a Ezechiele. «Era la scoperta dell’immagine», commenta Calasso, e «fa parte dei supremi paradossi ebraici che quella scoperta fosse dovuta a colui che sarebbe stato ricordato e celebrato come il nemico delle immagini».

Infatti, la lotta iconoclasta di Mosè, dei profeti e della Bibbia è profondamente legata al rifiuto della seduzione-promessa che il serpente fa alla donna di poter “diventare come Dio”. L’Adam non è Dio, non può diventarci perché il suo non-essere come Dio è il suo dato creaturale essenziale. Non è Dio ma è “immagine di Dio”, e non deve farsi immagini di Dio per ricordarsi che l’immagine di Elohim sulla terra si trova nell’uomo e nella donna (Genesi 1,27), e lì la sua dignità infinita (Salmo 8). E anche se Calasso qui non ce lo dice, è la stessa Bibbia a sciogliere questo “supremo paradosso” dell’immagine. Secoli dopo da quell’episodio nel deserto, Ezechia, re giusto, decise di distruggere quel serpente creato da Mosè, perché «fino a quel tempo gli Israeliti gli bruciavano incenso e lo chiamavano Necustàn» (2 Re 18,4). Quel serpente di bronzo era dunque diventato un idolo, e la lotta all’idolatria è l’altra faccia della custodia dell’immagine. La Bibbia aveva creato un giorno il serpente di Mose, la stessa Bibbia in un altro giorno lo eliminò. Auto-sovversione è nota costante dell’umanesimo biblico, che l’ha tenuto vivo.

Molto belle, poi, sono le pagine sul sacrificio. Calasso attraverso la sua opera ha sviluppato una suateoria del sacrificio, una delle più profonde ed elaborate del ‘900 sebbene non sistematica e sparsa in tutta la sua opera: «Il sacrificio non vale ad espiare una colpa, come leggiamo nei manuali. Il sacrificio è la colpa, l’unica colpa» (p. 46). E più oltre specifica: «Il sacrificio è una ferita - e il tentativo di guarire una ferita. È una colpa - e il tentativo di sanarla… Nello stesso istante si ebbero il desiderio e la ferita. Che non si sarebbe più rimarginata, anche se si doveva tentare di medicarla. A questo servono i riti». Particolarmente suggestiva è la sua semantica del sacrificio: «Il fondamento del sacrificio è in questo: che ciascuno è due, e non uno … L’inganno sacrificale - che sacrificante e vittima siano due persone e non una - è l’abbagliante, l’invalicabile rivelazione su noi stessi, sul nostro doppio occhio. La storia si compendia anche in questo: che per un lungo periodo gli uomini uccisero altri esseri dedicandoli a un invisibile, e da un certo punto in poi uccisero senza dedicare il gesto a nessuno: dimenticarono?». Quindi continua: «Aristotele definiva l’uomo come animale sociale. I veggenti vedici come l’unico animale che sacrifica. Definizioni incontrovertibili, di pari estensione. Ma gli animali sociali se ne trovano non pochi, soprattutto tra gli insetti. Mentre l’uomo rimane senza paralleli, in quanto animale che sacrifica. E, se non compie l’atto, continua comunque a usare la parola e a teorizzarla». Grandi intuizioni, anche per capire il capitalismo. Ne La rovina di Kasch aveva aggiunto: «L’oblio di questa colpa è il fondamento dell’industria», e «l’industria è una officina sacrificale».

Il sacrificio è poi declinato tenendolo in stretto dialogo con la categoria della sostituzione che a sua volta rimanda al concetto di scambio. Ancora ne La rovina di Kasch aveva infatti scritto: «si dice che sacrificio sia l’origine dello scambio: ma lo scambio è l’insieme di cui sacrificio è un sottoinsieme: e lo scambio, a sua volta, è inglobato in un’altra categoria, che solo lo rende possibile: la sostituzione». Il grande racconto di Abramo e Isacco sul Monte Moriah, è per Calasso molto importante, perché «non c’è sacrificio che non ammetta la sostituzione» . E così, «alla domanda di Isacco sull’animale da sacrificare che non c’era, Abramo aveva risposto: “Elohim provvederà all’ariete dell’Olocausto”... La mossa della sostituzione è il punto decisivo. Sarà l’uomo a sostituire l’animale o l’animale a sostituire l’uomo?… se Abramo avesse chiesto di avere la grazia di sostituire Isacco con un ariete… da quel giorno Abramo avrebbe potuto attribuire l’iniziativa di aver proposto la sostituzione. E con ciò sarebbe fallito nella prova a cui Iahvè l’aveva sottoposto e si sarebbe rivelato inadatto quale capostipite dei figli di Israele. La sostituzione doveva essere un dono di Iahvè non un’invenzione degli uomini».

Se infatti Abramo fosse stato l’artefice della sostituzione, «da quel momento tutto avrebbe potuto essere sostituito con tutto». Ed è infatti quanto è accaduto con il capitalismo di ultima generazione, dove con l’infinita riproducibilità e quindi sostituibilità di ogni merce, il rito del consumo ha creato la sua versione dell’immortalità, uno dei dogmi della religione capitalistica, destinato a diventare perfetto con l’Intelligenza Artificiale. La sostituzione di tutto con tutto è una nota della nostra “età dell’inconsistenza”, come la chiama Calasso, generata dall’homosaecularis che ha lasciato il sacro per diventare eterno “turista” nel proprio mondo (un’altra sua espressione). In questa nuova età «il sacrificio non è più ammesso», e quindi la domanda: «dove è finito? Fra le superstizioni?». In realtà è finito nel mondo del business e della grande impresa, il luogo che sta monopolizzando i residui del sacrificio arcaico, sebbene venga presentato come atto libero del lavoratore - di cui molto abbiamo scritto anche su queste pagine.

Seguendo infine la sua analisi della società dell’inconsistenza, ci si imbatte con una frase che da sola spiega molto della dimensione religiosa-idolatrica del nostro tempo: «Oggi, se dovessi definire il presente, la cosa che lo differenzia da tutto è il fatto di aver inventato una mistura micidiale di irreligiosità e bigotteria. Il nostro mondo è profondamente bigotto, ma di una bigotteria laica e religiosa insieme. Il religioso che torna ben poco ha a che fare con quanto è stato». Concludo con un gioiello che non traggo da questo libro ma da Ka (1996), una delle sue opere più belle: «Questo lo devi sapere, capirai presto perché. Tu sei mio figlio - e sei nato per riscattare me. I figli nascono per riscattare i genitori».

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