giovedì 13 ottobre 2016
L'altruismo? Biologia (e cultura)
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Qualche lettore di Ian McEwan ricorderà il neurochirurgo protagonista di Sabato . Lo scrittore britannico durante la stesura probabilmente ricevette consigli anche dall’amico e compagno di escursioni Ray Dolan, docente di neuropsichiatria all’University College di Londra e nome di spicco delle neuroscienze cognitive, in arrivo in Italia per una conferenza. Come nel romanzo, malgrado tutta la scienza di cui si narra, è una poesia a evitare un delitto, così Dolan, impegnato a svelare le basi biologiche del comportamento, riconosce che nella grande letteratura troviamo tanta sapienza sull’essere umano. Professor Dolan, a Bergamo-Scienza lei spiegherà che la nostra tendenza comportamentale di base è altruistica. I pessimisti sulla natura umana non sarebbero d’accordo. Che cosa ci dicono oggi le neuroscienze cognitive?«Il tema di come si sviluppano empatia e altruismo è molto complesso. Attualmente, la nostra ipotesi migliore dice che almeno una componente è mediata dalla nostra biologia. A molti può sembrare un’affermazione azzardata, dato che tante persone ritengono che l’altruismo sia legato a una fede religiosa. Tuttavia, le prove a sostegno di questa idea vengono da un’ampia serie di osservazioni. In primo luogo, vediamo un comportamento altruistico nelle formiche, nei ratti e, meno sorprendentemente, nei cani. È difficile sostenere che la cultura svolga un ruolo nell’orientare il comportamento di queste specie. Processi simili sono all’opera anche negli esseri umani, benché, senza dubbio, come specie siamo molto più sensibili all’influenza della cultura. È quindi probabile che le nostre disposizioni morali, tra cui quelle all’altruismo e all’empatia, abbiano un fondamento nella nostra biologia, un fondamento però fortemente plasmato dal nostro ambiente culturale, che comprende il modo in cui la famiglia media l’influenza della cultura».Considerando i risultati neuroscientifici, ci si può chiedere se istruzione, cultura e regole morali abbiano un ruolo nello sviluppo di empatia e altruismo?«Si potrebbe anche ribaltare la domanda e chiedersi se la neurobiologia limiti l’espressione individuale di questi tratti. Ciò è senz’altro vero ed è vero per tutti i tratti umani. Non sappiamo con precisione come la cultura, l’istruzione e le regole morali incidano sul comportamento altruistico. Quello che sappiamo è che se alcune precise aree del cervello subiscono un danno, questo incide sulla capacità di esprimere altruismo ed empatia. Sappiamo pure che la nostra bussola morale viene facilmente orientata dal contesto in cui viviamo, come hanno mostrato i famigerati esperimenti di Milgram, in cui le persone erano portate a ferire i propri compagni indifesi seguendo gli ordini di uno scienziato».Lei studia le emozioni da molti anni: come condizionano il nostro comportamento? Le persone tendono a pensare che le emozioni siano opposte alla ragione e che spesso possano indurci in errore.«La preoccupazione per gli altri può nascere da una riflessione razionale. Ma nei termini delle teorie oggi più influenti, come la teoria della selezione parentale, si può pensare all’altruismo come parte di un strategia evolutiva, la quale assicura che i nostri geni vengano trasmessi alla generazione successiva. Nei miei studi sull’altruismo, tuttavia, emerge che coloro i quali esprimono il più alto grado di altruismo hanno anche la maggiore preoccupazione empatica verso gli altri, hanno cioè una più ricca rappresentazione degli stati emotivi del loro prossimo. L’idea che l’emozione ed il ragionamento siano opposti è certamente vera in alcuni casi, ma altrettanto spesso emozione e ragionamento servono gli stessi fini».Tra i suoi temi di ricerca, c’è anche l’integrazione delle informazioni sensoriali con le conoscenze pregresse quale fattore determinante per il nostro comportamento.«Una delle questioni più ampie nelle neuroscienze è ovviamente quella fondamentale su come funziona il nostro cervello. È possibile avvicinarsi a questo obiettivo di conoscenza su più livelli. A livello della persona che ha esperienze sensoriali, questa è l’ipotesi di come vadano le cose. Siamo continuamente bombardati da stimoli (suoni, odori...) e vi facciamo fronte ricorrendo alla conoscenza che già abbiamo, è in base a ciò che già sappiamo che tentiamo di discriminare gli stimoli e di capire che cosa li ha provocati (che cosa abbia provocato il rumore, da dove venga l’odore...). Questa conoscenza ci viene dall’esperienza. Il cervello fa tutto questo come uno scienziato mette alla prova diverse ipotesi. Dobbiamo poi sapere chi siamo nel mondo. Il nostro ambiente, in particolare l’ambiente dell’infanzia, è fondamentale nel plasmare la nostra identità. All’interno di questo primo ambiente di vita, impariamo una serie di valori, e tali valori ci guidano nelle interazioni con il mondo e, nello specifico, con i nostri simili. La conoscenza che già abbiamo qui è particolarmente importante; di recente, abbiamo mostrato che coloro che sono meno certi dei propri valori sono esposti all’influenza dei valori delle persone con cui interagiscono. Se non sono sicuro su me stesso, posso aumentare la mia conoscenza di me osservando gli altri e, per così dire, aggiornare poi le mie opinioni. Questa ipotesi, vale a dire l’incertezza su quali siano i propri valori, potrebbe spiegare in parte perché alcune persone sono più suscettibili all’influenza dell’estremismo».Lei si interessa anche dell’espressione distorta delle emozioni, come avviene nel caso degli psicopatici. A volte si dice che siamo circondati da psicopatici...«Siamo circondati da persone tra le quali qualcuno ha tratti da psicopatico e pochi sono veri psicopatici. Qualcuno ipotizza però che tali tratti siano più diffusi in alcuni gruppi, per esempio i politici. Lo lascio dire a chi conosce i politici da vicino. Ma, avendo visto la serie tv House of cards , temo che possa essere vero».Siamo destinati a vivere in una “neurocultura”, in cui ogni caratteristica del comportamento umano sarà spiegata dalle conoscenze neuroscientifiche?«Non vi è dubbio che le neuroscienze abbiano colonizzato l’immaginario pubblico nel corso degli ultimi due decenni e che la “neurocultura” sarà sempre più diffusa. Credo tuttavia che sia meglio rimanere umili rispetto alla capacità delle neuroscienze di conoscere la condizione umana. Siamo ancora ai piedi della montagna e le nostre intuizioni scientifiche non reggono minimamente il confronto con le intuizioni che hanno avuto giganti come William Shakespeare».
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