Il segretario di Stato statunitense Henry Kissinger e il ministro degli Esteri argentino César Augusto Guazzetti si diedero appuntamento tra i lussi dell’Hotel Waldorf Astoria di New York. Era il 7 ottobre del 1976, sei mesi dopo il colpo di stato a Buenos Aires. Fossero stati degli sconosciuti, gli avventori li avrebbero scambiati per due importanti uomini d’affari, intenti a parlare di dollari sorseggiando un Martini. «Il nostro principale problema è il terrorismo. Garantire la sicurezza interna del Paese ha bisogno da parte degli Stati Uniti di comprensione e supporto, anche per la crisi economica», disse Guazzetti all’amico americano.
«Abbiamo seguito le vicende argentine da vicino. Vediamo bene il nuovo governo e vogliamo che ce la faccia. Faremo il possibile», lo rassicurò Kissinger. Dagli Usa nessuna obiezione al piano sanguinario del triunvirato militare (1976-1983): il presidente, generale Rafael Videla (Esercito), coadiuvato dall’ammiraglio Emlilo Massera (Marina) e dal generale Orlando Agosti (Aeronautica).
Mantenendo la promessa fatta nel marzo scorso, Barack Obama ha firmato il decreto col quale vengono strappati al segreto un migliaio di documenti sul ruolo degli Usa nella “Guerra Sucia”, la guerra sporca che ebbe nell’Argentina il modello di intervento americano perfezionato con il “Plan Condor”, grazie al quale vennero tenute in vita le dittature di destra nel subcontinente americano. Un argine al timore di un’avanzata comunista che vedeva in Cuba il nemico sull’uscio di casa degli Usa.Nell’archivio compaiono rapporti diplomatici, testimonianze raccolte da diverse autorità americane, una lettera scritta da Carter a Videla e altro materiale proveniente dalla segreteria di Stato, dal Pentagono e da diversi organismi ufficiali. «È un grande passo avanti sulla via del “disgelo” tra gli Stati Uniti e l’America Latina: iniziato con l’avvicinamento all’Avana ora prosegue su un tema delicatissimo risalente all’epoca buia delle dittature sudamericane e dei loro supporter a Washington», commenta Alfredo Somoza, docente all’Istituto di studi politici internazionali, con un passato da esule argentino.
All’epoca della stretta di mano all’Hotel Astoria la stampa statunitense aveva cominciato a denunciare alcuni abusi, specie dopo che il Congresso e la stessa ambasciata Usa in Argentina si erano lamentati proprio con Guazzetti anche per il sequestro e la tortura di cittadini americani. Le violazioni che avevano caratterizzato i primi mesi del regime erano dunque ben note. Kissinger, rinnegando le motivazioni che lo avevano portato al Nobel per la Pace nel 1973, si mostrò comprensivo. «Sappiamo che siete in difficoltà. Sono tempi curiosi quelli in cui attività politiche, criminali e terroristiche tendono a emergere senza una chiara separazione. Capiamo che dovete stabilire un’autorità. Farò quel che posso». Sulla consapevolezza del gran burattinaio della politica estera Usa non ci sono dubbi. Il 9 luglio 1976, tre mesi prima del vertice al Wardof Astoria, il principale consigliere di Kissinger, Harry Shlaudeman, gli forniva particolari sui sistemi di Buenos Aires, dove veniva applicato «il metodo cileno: terrorizzare l’opposizione, anche a costo di uccidere preti e suore».
Perciò Kissinger, nonostante la condiscendenza, fu costretto a mettere in guardia il collega argentino: «Prima avrete finito meglio sarà», disse a Guazzetti. In effetti un’accelerazione ci fu: trentamila desaparecidos ventimila giustiziati dalle patota, le pattuglie della morte; due milioni di esiliati; almeno 500 bambini rubati alle detenute (giustiziate con mariti e fidanzati) e adottati con altri nomi da famiglie vicine al regime.L’anno dopo il democratico Jimmy Carter subentrò alla presidenza del repubblicano Gerald Ford e tentò di prendere le distanze dalle giunte militari. Kissinger non aveva più incarichi, ma non restò alla finestra. Più sinistro di quanto non si immaginasse, l’ex capo della diplomazia, spiega Somoza, «continuava a boicottare il lavoro del sottosegretario ai diritti umani di Carter, Patricia Derian».
La prima lettura dei documenti, aggiunge Somoza, fa luce su alcuni casi eccellenti di sequestri e torture di oppositori politici, «come quelli del sindacalista e insegnante Alfredo Bravo e del giornalista Jacobo Timmerman: adesso è certo che l’ambasciata Usa sapeva tutto». Emerge anche l’insistenza con cui sia Videla che Massera cercavano, senza trovarlo, un rapporto politico con Carter.
Un’attento studio dell’archivio consentirà di precisare meglio molti aspetti rimasti in ombra, ma alcuni segreti sembrano per il momento destinati a restare tali. E non si tratta di dossier secondari. In tutte le carte finora rivelate da diverse fonti, con eccezione dell’«archivio del terrore» rinvenuto in Paraguay sul modus operandi dell’Operazione Condor (il coordinamento dei Servizi segreti delle dittature per uccidere oppositori), «mancano sempre i dati risalenti ai canali di finanziamento – suggerisce Alfredo Somoza –, di rifornimento di armi, di sostegno politico a livello internazionale (l’Argentina di Videla non venne mai condannata in sede Onu). Mancano anche dolorosamente gli archivi della dittatura con la “contabilità” delle sparizioni forzate, che si sa esistere (o almeno esisteva), ma non è stata mai trovata».
Un aiuto è atteso dalla Santa Sede che per volontà di papa Francesco, protagonista di episodi eroici grazie ai quali molti perseguitati poterono mettersi in salvo, sta lavorando alla catalogazione e alla successiva apertura dell’archivio vaticano relativo agli anni della dittatura argentina. Somoza ne è certo: «Potremo finalmente leggere il quadro politico complessivo di una delle operazioni criminali più riuscite dopo la seconda Guerra mondiale. Un massacro reso possibile dal contesto storico e dalle tante complicità».