John Ruskin, "Ca’ d’Oro", 1845. Matita, acquerello, tempera su carta grigia. Ruskin Foundation, Ruskin Library, Lancaster University, Lancaster (© Ruskin Foundation, Lancaster)
Il nuovo Medioevo di Viollet-le-Duc è una finzione, quello di John Ruskin è il culto di una reliquia. Le idee utopiche di Ruskin, impregnate di una visione cristiana e socialista, avevano nel capitalismo selvaggio dell’Inghilterra vittoriana il loro nemico principale – lo definiva money-making mob, espressione di parvenu, della plebe arricchita. Poiché considerava l’artigianato medioevale un modello di umanità cui l’industrializzazione aveva posto fine privando, con l’uso allargato delle macchine, l’operaio dell’orgoglio del proprio lavoro, del prodotto finito dalle sue mani (ne parla quando descrive la "natura del Gotico"), non stupisce che per Ruskin ogni manufatto potesse rientrare nella categoria "arte": era appunto la difesa a oltranza del fatto a mano.
A ben vedere, era parecchio in anticipo su Duchamp, al quale però la categoria del fatto a mano dava sui nervi, essendo per lui arte un frutto della mente. Duchamp è a tutti gli effetti l’inventore di un’arte del Nuovo Mondo americano che nella macchina ha il suo propulsore. Arte combinatoria e minimale, come il funzionalismo impone. Per questa cultura un orinatoio, con un lieve slittamento semantico, può diventare un’opera d’arte degna di un museo. Ed è qui che anche la Pop art mette radici.
Il piacere della creazione, per Ruskin, è un fattore di elevazione spirituale, ma è anche ciò che evita all’uomo di essere solamente un mezzo di produzione. Era in buona compagnia Ruskin: in un arco che va da Smith a Marx. Inoltre, con William Morris condivideva una idea organicista dove etica e natura si fondono in un prodotto che porta l’impronta umana.
Questa etica si percepisce anche nell’infaticabile lavoro di disegno dal vero che Ruskin ha prodotto nei suoi viaggi e in particolare sulle "pietre di Venezia". La splendida mostra che la città lagunare gli dedica ora a Palazzo Ducale, curata da Anna Ottani Cavina (catalogo Marsilio), è al tempo stesso un affresco "archeologico" e un referto del sentimento interiore del grande critico e scrittore inglese che, come in pochi altri casi (Hugo per esempio) diede prova di grande abilità anche nel disegno e nella pittura. Due sono i temi ricorrenti in questa mostra: il paesaggio (cieli e monti, in particolare) e l’architettura (quella veneziana, ma anche, in alcuni fogli memorabili, Napoli e il Vesuvio).
Ruskin non ebbe mai problemi di sopravvivenza, essendo benestante di famiglia. Questo gli consentì quello che ogni intellettuale e artista desidera: muoversi liberamente e lavorare senza preoccuparsi della stretta necessità. Viaggiò molto, undici sono i soggiorni a Venezia fin dal primo coi genitori a sedici anni. Questo gli permise di dedicarsi liberamente alle arti nobili della scrittura e del disegno dove, al contrario di quel che si può pensare, non troveremo mai parole o segni esornativi, ma sempre funzionali e dettati dalle idee che professava nella sua visione etica e sociale. La fotografa Sarah Quill nel catalogo esamina il rapporto precoce di Ruskin col dagherrotipo come mezzo per conservare una memoria di tanti dettagli architettonici così da renderli con la massima precisione nei suoi disegni. Su questo la Quill ha pubblicato anche un libro, Ruskin a Venezia, edito da Jaca Book.
Anche nella conservazione delle opere d’arte Ruskin ha idee "organiciste": ritiene che il restauro sia sempre sbagliato, perché rimpiazza ciò che non c’è più con materiali nuovi che ricreano una sorta di falso storico. Le opere, i monumenti devono essere lasciati al loro destino, prima o poi anch’essi spariranno. Natura rosica storia, e la storia in questo caso è scritta nelle pietre.
Il nuovo medioevo di Ruskin non è quello di Viollet-le-Duc; per il grande architetto francese il falso storico richiede immaginazione. Carcassone e Notre Dame non sono mai esistiti, ovvero sono esistiti come Viollet-le-Duc li ha 'restaurati'; sono stati, appunto, reinventati, mettendo sulla tavola un catalogo di elementi e componendoli secondo una memoria culturale che è interpretazione e completamento di ciò che sappiamo. Quanti, trovandosi davanti a Notre Dame, sono coscienti che le chimere della grande balaustra hanno un secolo e mezzo di vita? Quanti si rendono conto che quelle figure sono un "tempo ritrovato" dall’immaginazione di Viollet-le-Duc? Restaurare nella visione di Viollet-le-Duc ha un sapore proustiano: ha a che fare con l’elaborazione di una memoria immaginata, un processo anche molto razionale dove il Medioevo esce dalla conoscenza tecnica e dal gusto dell’architetto per il passato. Sulla memoria, il tempo e la materia dove si manifestano qualche decennio dopo Viollet-le-Duc Bergson fornirà strumenti d’interpretazione importanti elaborando le categorie della durata e dello slancio vitale.
Venezia, nei disegni e negli acquerelli di Ruskin, è piuttosto un teatro del "tempo perduto", perché sulle acque il tempo ha deposto il suo scheletro di pietra e ci chiede di averne cura. Persino la varietà dei materiali e dei dettagli definiscono un insieme che rappresenta un tempo che si sta esaurendo.
È chiaro che ciò che vediamo non è il Medioevo o il Rinascimento (che Ruskin non ama), ma le tracce in cui questo tempo storico si è sedimentato anno dopo anno con aggiunte e rimozioni, demolizioni e ricostruzioni, innesti e sottrazioni. Quando Ruskin disegna i dettagli di quelle vestigia, ha già deciso che quell’archetto o quel capitello sono la parte che rappresenta il tutto, e ogni dettaglio arricchisce lo sguardo d’insieme e simbolicamente ne esprime l’essenza: è il medioevo salvato, non ritrovato nella finzione.
Non tutto il disegno di Ruskin ha questa impostazione metonimica, a volte è il tutto che viene in primo piano e assorbe la miriade dei dettagli che lui ha raffigurato con grande perizia, è il caso delle prospettive urbane che ci presentano il volto delblicato la città, Piazza San Marco, ma soprattutto il Canal Grande. Questa città sull’acqua è il mondo rovesciato dei paesaggi alpini o dei cieli striati o coperti di nubi, dove le montagne sono le architetture che la natura ha modellato. Ma ha perfettamente ragione Anna Ottani Cavina quando nota che ritraendo le "pietre di Venezia" Ruskin non aggiunge «quasi niente», e come sappiamo il "quasi niente" è ciò che fa la differenza, ciò che cambia in una sfumatura la sensazione che attraverso l’occhio ci comunicano il dipinto o il disegno di un particolare elemento architettonico o dell’insieme di una facciata, o ancora l’atmosfera di una visione allargata e dissolta della città (in cui Turner gli fu maestro).
Come dirà Ruskin a proposito di Ca’ Foscari: «La sua bellezza sta nelle sue crepe e nelle sue macchie, e disegnarle è impossibile» (perché sono già, come avrebbe detto Leonardo, pittura e capaci di suscitare in noi una memoria sedimentata dall’evoluzione millenaria). Disse anche: «Se sai dipingere una foglia, sai dipingere il mondo», perché non c’è niente di più architettonico ed effimero al tempo stesso di una foglia
Ruskin ci offre di Venezia una sorta di "madeleine" dove le sensazioni ritrovate e rielaborate possono farci capire e amare un Medioevo fantasma: non c’è la vita, ma c’è la sua anima di pietra. Il fossile che parla del tempo perduto. Ceci tuera cela. Nel titolo del capitolo di Notre Dame de ParisHugo paventa il rischio che le parole uccidano le pietre, che l’architettura sia dissolta e vinta dai furori della scrittura, che il grande libro di pietra dell’umanità scompaia e con esso ciò che di noi sappiamo. Trent’anni dopo Haussmann demolirà una parte enorme del tessuto medioevale di Parigi per imporre alla città una forma a raggera con i lunghi boulevard.
Ecco, Ruskin che era mosso più da preoccupazioni estetiche che storicistiche, concentrandosi su Venezia – la città fragile che vince il tempo nella sua azione erosiva – vuole salvarne anzitutto l’alfabeto, il codice, perché per quanto stabile sia e costruita da sapienti artigiani, essa è come una zattera ancorata alla terra ferma che un giorno potrebbe prendere il largo e inabissarsi. Magari per colpa degli uomini. Ruskin soffriva di depressione e la sua visione "'organicista" della vita e dell’arte, ha in sé una profonda malinconia, egli sa bene che anche le cose più belle sono destinate a finire e di esse si può solo salvare il ricordo del disegno e del colore lieve ad acqua, strumenti di un minimalismo che è anche esistenziale e profondamente religioso.
Venezia, Palazzo Ducale
JOHN RUSKIN
Le pietre di Venezia
Fino al 10 giugno