Il profeta Amos in un affresco di Melozzo da Forlì
«Non c’è più alcun profeta, e fra noi nessuno sa fino a quando»: il grido del Salmo 74 fa parte di un lungo lamento dopo il saccheggio e l’incendio della città di Gerusalemme nel 586 a.C. La desolazione e la disperazione invadono tutti gli spiriti perché l’impensabile è accaduto: la città santa non si è salvata.
Il grido, però, si applica a tante situazioni e molti sono tentati di riprenderlo oggi, in un mondo che sembra confermare quello che diceva Giobbe: «[…] Ciò che io temo, mi colpisce, e ciò che mi spaventa, mi sopraggiunge. Non ho tranquillità, non ho pace, non ho posa, mi assale il tormento » (Gb 3,25-26). In questo nostro mondo ove diventa difficile seminare la speranza, esistono ancora profeti? E chi sono i profeti dei nostri giorni? Vorrei mostrare, in questo breve testo, che l’antica tradizione dei profeti biblici non si è completamente spenta.
Inizio con una citazione: «L’uomo ragionevole si adatta al mondo; l’uomo irragionevole persiste nella volontà di adattare il mondo a se stesso. Perciò, ogni progresso dipende dall’uomo irragionevole». La frase viene da George Bernard Shaw, scrittore irlandese (1865-1950), conosciuto per le sue riflessioni provocatorie, e si presta senza dubbio a numerose interpretazioni, alcune addirittura sconsiderate. Rimane vero, tuttavia, che situazioni di oppressione possono durare a lungo perché tante persone o società sopportano le loro condizioni di vita senza protestare. I tiranni del nostro mondo sanno benissimo che molta gente teme di reagire e preferisce soffrire piuttosto che affrontare gravi pericoli.
George Bernard Shaw offre in merito riflessioni più che valide. Egli non era certo un “cristiano modello” e non aveva mai preteso esserlo. Era però molto sensibile alle questioni sociali in un tempo in cui il divario fra i ceti si era accentuato a grande velocità. Conobbe uno sviluppo industriale a volte selvaggio, e conobbe anche due guerre mondiali e la rivoluzione di ottobre in Russia. Non dimentichiamo, tuttavia, che trovò una fonte di ispirazione nel Discorso della montagna del Vangelo di Matteo (Mt 57), in particolare quando si trattò di combattere contro la guerra. Fu pacifista, socialista, vegetariano, e premio Nobel per la letteratura nel 1925. Usò il teatro piuttosto che la politica per diffondere le sue idee.
In una frase spesso citata, considerava il teatro «una fucina di pensieri, una guida per la coscienza, un commentario della condotta socia- le, una corazza contro la disperazione e la stupidità e un tempio per l’elevazione dell’uomo» ( Shaw’s Dramatic Criticism from the Saturday Review, 1895-1898). Il suo pubblico era invitato a pensare, a interrogarsi e a promuovere un’umanità migliore. D’altronde, il teatro doveva avere una funzione educativa, doveva aguzzare il senso critico, permettere di combattere ignoranza e stupidità e, nello stesso tempo, impedire di scoraggiarsi davanti alla malvagità del mondo. In poche parole, il teatro doveva denunciare quello che non dovrebbe esistere in questo mondo, far sognare un mondo diverso e instillare l’energia necessaria per costruirlo.
Il pensiero di Bernard Shaw ebbe molto seguito. Robert Kennedy, ad esempio, utilizzò come slogan per la sua campagna elettorale, nel 1968, una frase attribuita a George Bernard Shaw: «Alcuni uomini vedono le cose così come sono e dicono: “Perché?”. Io sogno le cose come non sono mai state e dico: “Perché no?”».
Viene immediatamente in mente: da dove proviene quel tipo di personalità che riesce a scuotere le coscienze perché sogna un mondo diverso? Penso che il mondo del profetismo biblico ci aiuti a rispondere a tale domanda. I profeti biblici, alla stregua di Michea e Amos, possono essere considerati come precursori degli spiriti come quelli di George Bernard Shaw, almeno nel campo della lotta per una società più giusta e nello sforzo di svegliare le coscienze addormentate del loro tempo.
Vi sarebbero molti esempi di questo tipo. Ne menziono ancora uno, quello dello scrittore filippino José Rizal (1861-1896), giustiziato dalle autorità coloniali spagnole per le sue idee, benché fosse un convinto pacifista. Egli diceva a proposito del suo popolo: «La rassegnazione non è sempre [una] virtù, è un crimine quando incoraggia i tiranni: non vi sono despoti ove non vi sono schiavi» (dal romanzo El filibusterismo – “La sovversione” – pubblicato a Gand nel 1891 e ristampato di recente). Si deve aggiungere che era un autentico cristiano, però si è ribellato contro l’uso o l’abuso che si faceva della religione per convincere le popolazioni locali a sottomettersi a tutto ciò che veniva dall’autorità. Non ha organizzato alcuna lotta armata. Ha scritto poesie e romanzi che continuano a ispirare centinaia di persone ovunque nel mondo. La sua vita dimostra che il potere delle idee è ben più efficace di quello delle armi. Le armi uccidono persone, però non uccidono le idee.
José Rizal è stato giustiziato, le sue idee sono ancora ben presenti in molti ambienti. La sua insistenza è sul dovere di reagire e di denunciare pratiche tiranniche a nome della dignità umana. La rassegnazione fa il gioco del despotismo. Ha certamente ragione quando dice: «Non vi sono despoti ove non vi sono schiavi». Le tirannie di questo mondo sono fondate sulla paura e la paura è alla radice della schiavitù. Lo schiavo rimane schiavo finché ha paura del suo padrone. Smette di essere schiavo quando smette di avere paura. Sono i profeti che riescono a convincere gli schiavi di ogni tipo che sono loro a decidere della loro sorte. Il potere di un tiranno, fosse il più potente di questo mondo, è sempre limitato.
Nei nostri giorni, vi sono ancora persone simili ai profeti dell’Antico Testamento, a George Bernard Shaw o a José Rizal, ad esempio, per prendere una personalità molto vicina a noi, Stéphane Hessel (Berlino, 1917 - Parigi, 2013), con il suo grido «Indignez-vous!». Il libretto (uscito in traduzione italiana come Indignatevi! nel 2011), scritto all’età di 93 anni, ha avuto un successo travolgente. Più di 700mila copie sono state vendute in Francia solo nell’anno della sua pubblicazione. Indignarsi significa non accettare l’ingiustizia perché inevitabile, non rassegnarsi perché resistere è troppo difficile, non rinunciare ad agire perché il compito è enorme, e non tacere perché parlare sembra inutile. Stéphane Hessel conclude in questo modo le sue riflessioni da vecchietto sempre giovane e arzillo: «A quelli che costruiranno il ventunesimo secolo, diciamo con affetto: creare è resistere. Resistere è creare».
Anticipiamo qui ampi stralci del testo del gesuita belga Jean Louis Ska, considerato tra i maggiori biblisti ed esegeti contemporanei, pubblicato nel numero in uscita di Vita e Pensiero, bimestrale culturale dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.