venerdì 19 luglio 2024
Il giudizio finale e la sorte dell’anima sono dogmi originari della fede cristiana, ma hanno bisogno di un edificio teologico più ampio di quello della tradizione. La riflessione di Pierangelo Sequeri
Andrea Mantegna, "La discesa di Cristo nel Limbo", particolare

Andrea Mantegna, "La discesa di Cristo nel Limbo", particolare - WikiCommons

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Anticipiamo le prime pagine del prologo di Pierangelo Sequeri al volume E la vita del mondo che verrà (Vita e Pensiero, pagine 272, euro 20,00) che il teologo firma insieme al collega Davide Bonazzoli e al biblista Franco Manzi. I tre autori si concentrano sulla «vita del mondo che verrà» annunciata dall’ultima frase del Credo, partendo dalla domanda su come la creatura che Dio ha messo al mondo rimane “vivente”, secondo la pienezza di ciò che significa essere umani.

Da molti decenni ormai, le riflessioni teologiche sull’escatologia cristiana iniziano con l’evocazione dell’immagine di “cantiere chiuso per restauri’” Ogni tanto arrivano nuovi materiali di arredo, appaiono nuove modifiche al progetto. Continua a rimanere difficile intuire l’immagine dell’opera finita.

E poi, quell’immagine del “restauro” di per sé lascia pensare al semplice “recupero’” estetico e funzionale, di un ambiente già perfettamente adatto per essere abitato ai giorni nostri come lo era in epoche ormai passate. Come se una rinfrescatina potesse bastare per restituire all’antico splendore i suoi affreschi. E un semplice adeguamento degli impianti lo rendesse adatto alla generazione presente. Non è così. Naturalmente, non parliamo della intramontabile centralità del tema per l’ispirazione originaria della fede cristiana: che non sarebbe (quasi) niente, se non fosse fede escatologica. Parliamo della costruzione che le è cresciuta intorno, attingendo ai materiali e ai criteri che, per secoli, hanno istruito il vocabolario e la grammatica delle credenze universali a riguardo del post mortem (con ovvi riflessi sulle condotte in vita). L’habitat di questa costruzione appare ora troppo angusto per una concezione della qualità umana che nel frattempo – grazie al cristianesimo! – ha sviluppato una coscienza sensibile alle dotazioni creaturali – donate da Dio! – che ne orientano la destinazione. Ma prima ancora, la rozza semplificazione dello schema giudizio/compimento, che ha forzato la relazione/rivelazione cristologica dentro un atto processuale/retributivo, risolve – e chiude – il dinamismo creaturale del regno di Dio, annunciato da Gesù, nella infinita – e duplice – sopravvivenza di un’anima extra-mondana.

L’escatologico cristiano parla del destino del mondo creato e del senso della storia umana. Non meno di questo. E anche molto più di questo. Il senso della qualità spirituale e il destino della singolarità personale della creatura umana sono un punto di snodo essenziale della relazione con Dio in cui si decide il compimento della promessa di Dio. Non nella rimozione del mondo e della storia, però. L’audace bellezza della promessa della risurrezione nello Spirito chiude, coerentemente con l’inaudito dell’incarnazione del Figlio, con tutte le tradizioni filosofiche e teologiche di una mera sopravvivenza spirituale della vita che rimuove la creatura sensibile. Come rimane vivente, nella pienezza di ciò che significa vivere, la creatura umana che Dio ha messo al mondo? Come rimane umana, nella pienezza di ciò che significa essere umani, una soggettività senza mondo umano da condividere? L’anima spirituale dell’umano, secondo il concetto-sintesi, un po’ ebraico e un po’ greco della nostra tradizione, non deve certo diventare umana, come se non lo fosse di suo, quale che sia la sorte della carne in cui vive. Né deve diventare vivente, come se fosse un organo del nostro corpo carnale, che si dissolve con esso. L’anima “separata” dal corpo significa la trascendenza e la singolarità dell’essere umano: essenzialmente e ontologicamente irriducibile a “questa” configurazione dell’elemento corporeo che conosciamo come materia e organismo del nostro venire al mondo. Non c’è dunque necessità di rinunciare alla verità permanente di tale vocazione dell’elemento spirituale – che nell’idea dell’anima riconosciamo come figura sintetica della sua trascendenza rispetto all’elemento carnale di cui conosciamo il degrado – alla destinazione eterna.

La contrazione del dogma esplicito e formale, che ha messo al sicuro questa acquisizione, saldandola in presa diretta con l’irrevocabilità della rivelazione del giudizio post mortem del singolo – e l’effettività della relazione con Dio che vi è congiunta –, deve essere sciolta, però, dall’inclinazione della sua ermeneutica a rimuovere la sua conciliazione con la ricchezza dell’intero della rivelazione.

Esiste una “dogmatica” della risurrezione, senza la quale «vana sarebbe la nostra fede» (anche quella nell’immortalità dell’anima?). Esiste una “dogmatica” della salvezza che include e oltrepassa il giudizio («Dio non ha mandato il suo Figlio a giudicare il mondo, ma per salvarlo»: per salvarlo incominciando dai più perduti). Esiste una “dogmatica” del ritorno del Signore «per giudicare i vivi e i morti» (i morti, non solo i vivi). Esiste una “dogmatica” «della vita del mondo che verrà», compresi «nuovi cieli, nuova terra, nuova creatura». Sono metafore ornamentali, senza peso essenziale per il “dogma”? Possiamo consegnarle all’estetica della predicazione, tenendo per verità l’immortalità dell’anima che le riassume ontologicamente, con la chiusura di tutti i suoi rapporti nell’atto sovrano che – proprio nell’evento decisivo del suo accesso all’eterno – ne azzera la libertà e la parola, per sempre? Queste domande preliminari dovrebbero bastare a legittimare l’impegno della teologia e della predicazione per la riapertura del totale della verità rivelata, a noi accessibile, seriamente compromesso dall’abitudine minimalistica alla quale ci siamo adattati.

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