Una sequenza del docufilm “The dreamers: afghan women’s resistence” realizzato da Allessandro Galassi per Avvenire - Alessandro Galassi
«Com’è importante sognare insieme! (…) Da soli si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è – scrive papa Francesco in Fratelli tutti -. I sogni si costruiscono insieme». È proprio un sogno quello che si realizza, giorno dopo giorno, in una provincia del nord dell’Afghanistan, dove il vento scolpisce incessantemente le cime maestose dell’Hindu Kush e i mulinelli di terra conferiscono al paesaggio una luce irreale. Perché tanti slanci si sono uniti per creare “l’associazione” - non ci è concesso dire di più - e con lei “scuola che non c’è”. Quelli di un visionario operatore umanitario e di otto giovani che, nel 2019, hanno creato una rete di centri di apprendimento sparsi in una decina di distretti tra i più remoti del Paese.
E che, due anni dopo, si sono rifiutati di far morire l’esperienza insieme alla Repubblica filo-occidentale, sgretolatasi sotto l’onda d’urto dei taleban. L’hanno, invece, adattata al nuovo corso, grazie al forte radicamento nelle comunità locali e al sostegno del consiglio degli anziani, autorità tradizionale rispettata da tutti, inclusi gli studenti coranici. Capofila del progetto la struttura situata a tre ore d’auto da Kabul, sostenuta dai lettori con la campagna “Avvenire per le donne afghane” attraverso Caritas italiana.
Là si intrecciano, si alimentano e si rafforzano reciprocamente i sogni di oltre novecento studentesse che imparano gratuitamente inglese, informatica e, ora, anche matematica e scienze.
Sono loro The dreamers “Le sognatrici”, le protagoniste del racconto visivo di questa utopia possibile, realizzato per Avvenire dal regista e documentarista Alessandro Galassi e presentato ieri nello Spazio cinematografo di Fondazione ente dello spettacolo nell’ambito della Mostra internazionale d’arte cinematografica della biennale di Venezia.
«È bello ospitare in questa casa un progetto che riguarda non solo l’Afghanistan ma tutti noi, perché si parla di diritti umani », ha detto don Davide Milani, presidente della Fondazione.
La resistenza creativa e inarrestabile di queste giovani e giovanissime “sognatrici” irrompe con forza nei sei minuti di estratto, proposto in anteprima al pubblico dell’Excelsior.
Se i volti si intravedono appena, per questioni di sicurezza, sono le mani, le voci, i canti, il continuo rincorrersi di evocazioni e rimandi a farla penetrare fin nelle viscere di chi guarda. Lo spettatore viene, così, catapultato nella complessità dello scenario afghano, «in cui, nonostante le enormi difficoltà, è possibile continuare a tenere accese piccole luci di speranza», ha detto l’operatore umanitario – la cautela impone di non dare ulteriori dettagli - che ha partecipato all’evento in collegamento online insieme a un gruppo di studentesse.
«Per questo è importante continuare ad esserci e a lavorare in e per l’Afghanistan. Insieme alle persone. Il nostro principio fondamentale è: ognuno può insegnare qualcosa. Ovvero il sapere è circolare e non unidirezionale. Quando le studentesse terminano il corso avanzato, dunque, fanno formazione alle bambine dei propri villaggi. In questo modo restituiscono quanto appreso e il sapere si diffonde in modo capillare, contagiando l’intera comunità», ha aggiunto.
«Quando sono andato con Avvenire per girare – ha raccontato l’autore, Alessandro Galassi – mi sono trovato di fronte una realtà estremamente sfaccettata». Mentre, a colpi di decreto, si cerca di cancellare le donne dalla vita civile della nazione, queste ultime fanno ricorso a un supplemento di immaginazione per sopravvivere, come cittadine e soggetti attivi.
«Pensavo di trovarmi di fronte delle vittime, invece ho incontrato delle resistenti e questo mi ha profondamente commosso», ha sottolineato il regista di The dreamers: afghan women’s resistence, la cui versione integrale sarà disponibile in autunno.
Resistenti come Fatima Haidari, 25 anni, originaria di Herat, a Milano da due anni, dove studia Scienze politiche internazionali all’Università Bocconi. «Sono dovuta fuggire dopo il ritorno al potere dei taleban – ha spiegato nell’intervento nello Spazio cinematografo –, non solo perché in quanto attivista e hazara, etnia di fede sciita perseguitata durante il primo Emirato degli anni Novanta, ero un bersaglio. Ma perché qui sono più utile alla battaglia nonviolenta portata avanti dalle afghane. In Afghanistan avrei dovuto nascondermi. Qui ho la possibilità di parlare, raccontare, contribuire a questo sogno collettivo di vita e libertà. Di essere, dunque, chi ho scelti davvero di essere».
La storia di Fatima è parte del libro appena pubblicato da Vita e Pensiero, Noi afghane che contiene le voci raccolte da Avvenire nell’ambito della campagna avviata per lo scorso 8 marzo. Un’iniziativa in cui il giornale continua ad essere fortemente impegnato. Come ha dimostrato la presenza all’evento di ieri del direttore generale, Alessandro Belloli.
«Veniamo da luoghi, tradizioni, fedi, percorsi differenti – ha concluso Fatima Haidari - . Tutti, però, abbiamo in comune una cosa: la nostra umanità. Questo ci rende simili nel desiderio di vita, libertà, felicità. L’unico modo per realizzare questo sogno è prenderci cura gli uni degli altri». I sogni si costruiscono insieme, appunto.