mercoledì 23 ottobre 2024
A differenza dell'arte o del sistema museale, l'architettura è ancora oggi troppo spesso esente da critiche. Il nuovo libro dell'antropologo La Cecla
Veduta aerea di Khan Shatyr ad Astana, capitale del Kazakistan

Veduta aerea di Khan Shatyr ad Astana, capitale del Kazakistan - Alamy Stock Photo

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Pubblichiamo qui sopra un estratto dal libro di Franco La Cecla Addomesticare l’architettura. L’Occidente e la distruzione dell’abitare (Utet, pagine 176, euro 19,00). Nel volume l’antropologo e architetto parte dal presupposto che l’Occidente abbia usato l’architettura come strumento di colonizzazione e campo di speculazione finanziaria, per modificare il mondo secondo i propri principi. In tutti i mondi raggiunti dalla colonizzazione, dal Sudamerica all’Asia all’Africa, infatti, gli usi locali sono stati ignorati, svalutati e aboliti. L’autore cerca allora di ridefinire il ruolo della disciplina del costruire e di tornare alla radice del sistema urbano, rivalutando l’abitare in tutte le sue forme.

Oggi l’architettura continua, nonostante tutto, a essere l’ultimo campo immune da ogni critica. A differenza degli attacchi subiti da campi affini, come il sistema dell’arte, della produzione visiva, delle istituzioni museali (per citarne solo alcuni), l’architettura non è stata ancora investita da una critica della sua funzione di colonizzazione globale. Il suo arrivo in mondi diversi dall’Europa e dagli Stati Uniti ha spazzato via ogni cultura locale del costruire e abitare e vi ha sostituito un “linguaggio”, un’estetica tutta legata a una visione dove funzioni, forme, usi sono definiti da una way of life puramente occidentale. Questo processo è avvenuto a partire dal colonialismo in Africa, America Latina, Asia e Oceania e ha pervaso con le sue logiche “modernizzatrici” ogni angolo del mondo. L’architettura ha svolto il ruolo di giudizio dell’altrui abitare come “arretrato e poco funzionale” e ha popolato le città dei paesi colonizzati di vetro, acciaio e cemento, di una concezione della vita individuale e in comune completamente estranea alla storia e alla cultura in cui si innestava. È successo anche nelle colonie “italiane”, e in misura maggiore in quelle francesi e britanniche. Ha avuto e ha oggi una continuazione nel neocolonialismo e post-colonialismo statunitense, russo o cinese o indonesiano. Dietro alle avanguardie architettoniche, alle archistar, a sequela delle imprese che hanno divulgato funzionalismo, brutalismo, organicismo, postmodernismo, dietro al grattacielo o alla villetta costruita dal geometra c’è una vulgata monocorde che impone una sola forma di vita ritenuta civile: la singola cellula familiare con la sua privacy, o il miniappartamento urbano per il single, la vita separata dalla strada, la società di monadi che comunicano attraverso i social, la città come luogo del consumo, la delegittimazione di ogni attività produttiva delle households, la condanna dell’idea di casa in rapporto alle risorse naturali, la condanna dei vicinati, del villaggio urbano, la sostituzione alla società̀ degli insediati con quella di utenti di servizi erogati. È l’immagine della società frammentata occidentale, della sparizione dei legami incarnati dagli spazi costruiti per accoglierli, le sparizioni dei luoghi comuni per mangiare, crescere i figli, fare festa, celebrare i morti e gli antenati, riconoscere la divinità dei luoghi. Da quando mondo è mondo l’umanità ha sempre saputo abitare. Dalle caverne alle palafitte, dagli edifici in pietra a quelli in adobe o in pisé, dalle maloche amazzoniche fino alle ardite costruzioni inca, dai terrazzamenti balinesi alle risaie dell’antica Cina, ha sempre dimostrato di saper usare i materiali più adatti, le soluzioni climatiche più intelligenti, il genio che andava molto oltre l’essenziale. Abitare è stata una delle caratteristiche dell’essere umano e ha modellato la terra in un modo che offriva l’immagine di una conoscenza locale, di un dialogo costante con gli elementi e con il cosmo e la coscienza di non essere perduti nell’universo ma di farne parte integrante dando a essi tutte le scansioni simboliche, rituali, artistiche possibili. Solo la auto-proclamata modernità è riuscita a negare questa straordinaria evidenza e lo ha fatto con una spietatezza e sistematicità che ricorda da vicino altri tipi di sterminio. Spencer Segalla ha paragonato la distruzione della magnifica città di Agadir in Marocco, da parte degli urban planners della Francia coloniale ammiratori di Le Corbusier, al modo di procedere di Pol Pot in Cambogia: partire dalla tabula rasa, “prima di me nulla, tutto dopo di me”. La distruzione che l’abitare umano ha subito negli ultimi cento anni non ha paragoni nella storia dell’umanità. Possiamo trovare imperi che ne hanno distrutti altri, guerre e carestie, ma mai la sistematica, mondiale, pervasiva macchina che ha condannato ogni altra forma di vivere che non rientrasse nelle categorie di una autoproclamata modernizzazione, dietro cui si celava e si cela il progetto coloniale europeo e occidentale di tabula rasa. In cento anni dall’arrivo di Colombo, i colonizzatori spagnoli super-imposero un segno europeo indelebile sul paesaggio dal Messico al Cile, seppellendo gli enormi complessi indigeni religiosi e urbani, in special modo inca e aztechi, sotto griglie uniformi di strade parallele e perpendicolari e colonnati, facciate monumentali e soprattutto fondazioni religiose, campanili, monasteri e chiese imponenti. Una delle cose che più colpiva i coloni olandesi a Batavia era la predominanza in tutta l’area indonesiana di tetti rispetto a pareti. Mentre nella storia dell’architettura europea erano i muri a essere preponderanti, gran parte degli edifici in Indonesia mancavano di muri, ma erano tetti sostenuti da pali e piloni su una piattaforma. L’altra cosa che li stupiva era l’assenza di mobili e di divisioni interne. Trovavano queste case scure, fumose, superaffollate antigieniche. Disapprovavano la convivenza di più famiglie, che dal punto di vista dei missionari era considerato un pericolo di promiscuità. Non notavano assolutamente la bellezza degli esterni, i colori, gli intagli, gli ornamenti e le sculture, ma la non corrispondenza degli interni alle proprie convinzioni. Nella Nigeria britannica non solo i poveri di Lagos costruivano in maniera differente dal governo, ma usavano gli spazi in maniera differente. Gli yoruba, ad esempio, mantenevano i propri rituali, sia funerali che battesimi, coinvolgendo tutto il quartiere in danze comuni. La regola, che turbava gli europei, era la confusione costante tra appartamenti e spazi esterni. Gli abitanti usavano le strade o gli spazi pubblici adiacenti come ampliamento della casa. Tutti i passaggi tra la cellula individuale e l’ambiente circostante, come porte e finestre, erano frequenta - temente usate come collegamento tra l’interno e l’esterno. Casa era dunque non solo l’unità abitativa, ma anche tutta la regione intorno, in cui gli occupanti vivevano la parte più significativa delle loro vite.

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