mercoledì 1 dicembre 2021
Torna in libreria un volume del 1942 di don Giuseppe Fabiani che ricostruisce le vicende del primo Monte, nato nel 1458 grazie al francescano Domenico da Leonessa
Mendicanti nel ’300 (miniatura dallo “Specchio umano” di Domenico Lenzi)

Mendicanti nel ’300 (miniatura dallo “Specchio umano” di Domenico Lenzi) - archivio

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I Monti di pietà sono una istituzione socio-finanziaria che fa parte dell’eredità civile che l’Umanesimo italiano ha lasciato alla modernità. Un fenomeno che si sviluppò nel seno della trazione francescana nella seconda metà del XV secolo, all’inizio prevalentemente nelle Marche e in Umbria (con penetrazioni in Abruzzo) e poi già a partire dalla fine del Quattrocento in tutto il Centro e il Nord Italia. Storia diversa è quella del Sud, dove si svilupparono in età moderna soprattutto i Monti frumentari. La nascita dei Monti è stata uno dei paradossi più affascinanti della storia europea. La spoliazione di Francesco, la sua rinuncia totale all’economia di suo padre Bernardone, il 'nulla possedere' e il 'sine proprio' generarono due secoli dopo delle banche, e proprio da quella componente più radicale del suo movimento: i Minori dell’Osservanza. E se il Concilio di Trento non li avesse ridotti a enti di assistenza, snaturandone l’essenza di istituzioni finanziarie (diverse e solidali), l’Italia avrebbe avuto forse un’altra storia, dato che i Monti di Pietà in Italia a metà Cinquecento erano centinaia, e ogni città, anche piccola, aveva uno o più Monti: anche questa è parte dell’eredità lasciataci dalla Controriforma. In ogni fenomeno sociale importante l’origine ha un valore particolare, perché all’inizio si concentrano sfide e promesse che poi alimentano l’intero movimento. Da secoli si discute su quale sia stato il primo Monte di Pietà e su chi fosse il frate francescano che lo fondò. Le due principali (non uniche) città che continuano ancora a contendersi il primato sono Ascoli Piceno e Perugia. In realtà non ci sono dubbi che ad Ascoli sia nata nel 1458 una proto-banca svolgente funzioni di Monte di pietà, precedente al Monte di Perugia del 1462, fondato dal frate Michele. La questione controversa riguarda se quello di Ascoli fosse veramente un Monte di Pietà (con le caratteristiche di prestito su pegno, in particolare prestito oneroso), o se fosse invece un’istituzione di beneficienza simile alle tante che già esistevano in Italia. Di questo, e di altro, si occupò don Giuseppe Fabiani, storico ascolano, in un libro del 1942 (non di dimentichi la data), ora ripubblicato dalle Edizioni Lìbrati ( Gli ebrei e il Monte di Pietà in Ascoli), grazie a una sinergia tra vari enti della città di Ascoli Piceno e al lavoro di Franco Laganà, che ha scritto una lunga e ricca prefazione, seguita da un altro bel saggio introduttivo di fra Ferdinando Campana sulla storia dei Monti di Pietà in generale e nelle Marche. Un libro importante, che completa la storia dei Monti di Pietà, con una pagina ignorata da molti storici che si sono occupati di questo fenomeno, incluso il classico studio di M.G. Muzzarelli ( Il denaro e la salvezza, 2001). La letteratura sui Monti di Pietà pone al centro e all’origine fra Bernardino da Feltre, che operò soprattutto nel Nord Est italiano, e mette in secondo piano Marco da Montegallo (ascolano, noto fondatore di molti Monti in Italia, tra questi quello di Vicenza) e ancor più Domenico da Leonessa, che sono invece al centro del saggio di Fabiani. Il primo che pose la questione del primato di Ascoli Piceno fu monsignor Antonio Marcucci (Force di Ascoli Piceno: 1717-1798), vescovo di Montalto, importante personalità ecclesiale del tempo, non solo marchigiana. Questi nel libro Saggio sulle cose ascolane (1776), afferma che Marco da Montegallo «fu l’inventore dei Monti di Pietà', in quanto fondatore del Monte di Ascoli del 1458, il primo Monte. Sulla questione tornò un altro storico ascolano, Giacinto Cantalamessa Carboni ( Notizie storiche per servire alla biografia di frate Marco di Monte Gallo - 1843), che dedica molto spazio alla questione della fondazione del primo Monte di Pietà. In realtà lo storico ascolano ha molti dubbi che il primato di Marco sia legittimo, ma nel citare le fonti per smentire questa tesi, in realtà, senza volerlo, offre elementi per sostenerla. Il Marcucci è la principale (se non unica) fonte della fondazione del Monte di Ascoli per opera di Marco e quindi del suo essere pioniere in questo movimento. Ma il Marcucci, sostiene Cantalamessa, fonda la sua tesi su documenti storici deboli: un libro coevo dei fatti dell’ascolano Pierangelo Dino, poi una Storia di Ascoli di un antenato seicentesco dello stesso Marcucci (Nicolò) e infine i libri Consigliari del comune della città. Ma poi aggiunge che il Marcucci era storico di scarso valore e quindi poco affidabile, che il libro del Dino è andato disperso o forse non è stato mai pubblicato, e che i libri Consigliari di quell’anno sono andati bruciati in un incendio del 1535. E quindi afferma che il probabile fondatore del Monte di Ascoli sia stato il maestro di Marco, san Giacomo della Marca, che (forse) accompagnò Marco durante le predicazione dell’inverno del 1458, personalità di ben altro spessore e prestigio: «è da credersi che egli precedesse il Beato Marco nell’erezione degli stessi Monti di Pietà». In realtà, smontando la fonte del Dino, Cantalamessa riporta la citazione del numero di pagina del suo libro disperso, sebbene di 'seconda mano' in quanto vista da un altro storico ascolano dei Seicento, Andrea Antonelli, e dal Cantalamessa riportata. Tra l’altro, Marcucci cita il libro del Dino in molti altri passaggi della sua opera. Pace Cantalamessa, non ci sono ragioni forti per non credere alla fonte del Marcucci, almeno per quanto riguarda la fondazione del Monte di Ascoli; anche perché è sempre buona norma ermeneutica concedere la buona fede agli autori, fino a documentata prova contraria. Cosa pensava su questo tema Don Fabiani? Innanzitutto riporta un documento nuovo, emerso alla fine degli anni Trenta all’interno della Cronistoria dei frati minori (a cura di Antonio Talamoni): manoscritto che raccoglieva appunti presi da un notaio ascolano relativi ai verbali comunali (chiamati 'bastardelli'). Esaminando uno di questi bastardelli riguardante proprio gli anni 1456-1461, Talamonti scriveva: «Tra i frati minori osservanti in Ascoli si segnalarono Marco da Montegallo, che nel 1458 vi tenne un corso di sacra predicazione per comporre le civili discordie e per mettere fine alle usure degli ebrei, e Domenico da Leonessa, che pei medesimi scopi vi predicò nello stesso anno e con le sue esortazioni riuscì ad abolire il banco delle usure e ad erigere il Monte di Pietà», riportando in nota alcune frasi stralciate da quei volumi. Fabiani sottolinea: «La notizia è esattissima». E porta a ulteriore prova il verbale dell’Adunanza dell’Ordine dei minori del 14 gennaio 1458 dove si approva e delibera la nascita del Monte di Ascoli, che Fabiani trascrive e riporta in Appendice (II) del suo libro, nonché la foto della delibera del Monte del 1458. Sempre nel bastardello del notaio si legge che durante la grande assemblea del comune avvenuta il 15 gennaio 1458 nel Palazzo del popolo di Ascoli, « fuit lecta et vulgarizata lictera R.mi Patris Jacobi de Marchia ». Viene quindi rivalutata la tesi d’un coinvolgimento di Giacomo della Marca. Ma Fabiani, documenti alla mano, mostra che il vero promotore della nascita del Monte di Ascoli fu in realtà frate Domenico da Leonessa (de Gonza, nelle annotazioni del notaio). Era stato lui che con la predicazione aveva preparato gli animi e poi fu incaricato, insieme ad altri tre frati (di cui uno anonimo) dal Gran consiglio di Ascoli di individuare dodici uomini di chiara fama che, con incarico a vita, gestissero il neonato Monte. Quindi Fabiani aggiunge: «Così sorse il Monte di Pietà in Ascoli: l’autore, l’umile frate Piceno da nessuno mai elencato tra i pionieri della benefica istituzione. E aggiunge: «Nei documenti rimasti sembrerebbe invece escluso l’intervento del beato Marco da Montegallo… Però, facendolo i suoi biografi giungere ad Ascoli a predicare la pace sugli inizi del 1458, se il primo Monte è sorto dalla mente e soprattutto dal cuore del beato Domenico da Leonessa, non mi pare da escludere che possa essere stato corroborato dalla parola e dal prestigio del beato Marco». Come ricorda Laganà nella sua introduzione, a libro pubblicato il Fabiani rinvenne un importante documento che provava che il Monte di Ascoli aveva concesso un prestito nel 1460 a Lucarello di Nardo Massi di ducati 35, «da restituirsi entro un anno». Un testo che dovrebbe dirimere l’ultimo appiglio dei detrattori del primato di Ascoli su Perugia, perché nel 1460 il Monte era già operativo, faceva prestiti e non beneficienza. Perché mentre la tradizione della fondazione dei Monti che faceva capo a Bernardino da Feltre prevedeva come essenziale il pagamento di un tasso di interesse (in genere del 5%), la tradizione iniziata da Marco da Montegallo era per il prestito gratuito, ma sempre prestito non dono. Se quindi Marco ha partecipato, direttamente o indirettamente, a quella fondazione ascolana, non è da escludere che sia affermata la sua linea del prestito gratuito. Comunque non possiamo escludere che alcuni Monti, soprattutto all’inizio, praticassero sia il prestito cum merito che sine merito. Ma sempre Monte di Pietà erano entrambi. Un’ultima nota. Nella lettura di questo appassionante ed erudito libro, ci sono delle tinte fosche. Quando Fabiani scrive siamo nel 1942, e tutto il libro è accompagnato da un tono anti- semita che inficia la qualità dell’opera. Certo, quelli erano i tempi, si dirà; ma non tutti gli scrittori in quei tempi, dentro e fuori la Chiesa, usavano espressioni come: «Gli ebrei, come avvoltoi al sentore della carogna, caloroso a stormi nella nostre città…», oppure: «Finché il giudeo, questo mercante di lagrime e bevitore di sangue cristiano…». Di fronte a questo tono non sembra sufficiente né convincente quanto scrive Laganà nella sua introduzione: «La narrazione a “tinte fosche” con la quale Fabiani descrive negativamente l’usura ebraica… non è assolutamente da confondere con l’antisemitismo di stampo razzista». In realtà una edizione del testo dove alcune espressioni offensive per gli ebrei di ieri e di oggi fossero state quantomeno individuate, commentate e stigmatizzate (se non cassate), avrebbe molto giovato al libro.

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