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Da lungo tempo, almeno in Occidente, il ruolo dell’intellettuale nella società ha oscillato tra due concezioni in apparenza contrastanti. Da un lato abbiamo una figura distaccata dal mondo, quasi ascetica, eppure in grado di indicare valori universali; a essa si oppone il profilo dell’intellettuale impegnato, profondamente radicato nel proprio contesto sociale e risoluto a modificarlo anche attraverso l’azione politica. È un dilemma inesauribile, di cui oggi parliamo con Hagi Kenaan, già a capo del dipartimento di Filosofia dell’Università di Tel Aviv e oggi direttore di “Iyyun”, autorevole rivista di filosofia fondata da Martin Buber. Incontriamo Hagi Kenaan in occasione della sua presenza in Italia, a Pisa, ove partecipa al convegno internazionale “Il male visto e raccontato. Etica, comunicazione e testimonianza” che si tiene domani e dopodomani nell’Università della città toscana (vedi box nella pagina). Le sue parole ci portano a riflettere in termini inediti sulle questioni che da sempre animano il dibattito sul ruolo dell’intellettuale, esplorando le tensioni, le sfide e le opportunità proprie di un mondo in costante trasformazione.
Professor Kenaan, il suo paese, Israele, sta vivendo un momento di particolare agitazione sociale. Vede un ruolo specifico per gli studiosi e gli intellettuali israeliani nelle proteste in corso?
«Nell’attuale lotta per la democrazia in Israele, la parola “democrazia” ha preso vita come forma attiva di esistenza. Centinaia di migliaia di persone che prima vivevano una vita ordinaria, crescendo i figli, andando al lavoro, ecc. sono ora coinvolte e partecipano attivamente, in strada, a manifestazioni quotidiane. In questo momento di trasformazione è necessaria una riflessione intellettuale per capire e articolare meglio dove stiamo andando come società, quale futuro chiediamo per noi stessi e quale sia il nuovo “contratto democratico” che desideriamo per il nostro Paese».
Lei dirige “Iyyun”, la rivista di filosofia fondata da Martin Buber. In cosa consiste oggi l’eredità di Buber e in che modo la sua rivista ne è una prosecuzione?
«“Iyyun” è stata fondata nel 1945, alla fine della Seconda guerra mondiale, da Buber e da un gruppo di filosofi che, con l’ascesa del nazismo, lasciarono l’Europa e si impegnarono a creare una nuova cultura umanistico-democratica ebraica per il futuro Stato di Israele. Nel primo numero di “Iyyun” (ottobre 1945), i redattori insistono sull’immensa importanza della filosofia in questo rinnovamento culturale. Essi considerano la filosofia come una continua ricerca della verità e un processo critico che permette di legare il nostro pensiero, sia ordinario che teorico, alle sue basi concettuali. Per loro, però, questa critica deve andare di pari passo con un dialogo con la pluralità di voci del mondo. È qui che l’eredità “dialogica” di Buber acquista rilievo: e oggi, nell’attuale situazione israeliana e mondiale, più che mai».
Che valore le sembra avere il pensiero di Buber, ad esempio nelle relazioni Io-Tu e Io-Esso, a fronte delle forme di comunicazione odierne?
«Buber ci insegna che «mentre la relazione Io-Esso fa parte della nostra vita ordinaria, non possiamo vivere pienamente senza la comunicazione Io-Tu». Oggi che la comunicazione è diventata tecnologicamente mediata, è più facile comprendere il significato dell’affermazione di Buber. Abbiamo certo bisogno della tecnologia, ma la vita non vale la pena di essere vissuta senza dialogo diretto e senza possibilità di incontrare l’altro nella sua singolarità».
Vista la crescita dei social network e della comunicazione digitale, quali sono i potenziali rischi, o le opportunità, per il dialogo e la creazione di relazioni autentiche descritte da Buber?
«I social network e la comunicazione digitale hanno ampliato i nostri confini. Ci permettono di entrare in contatto con persone in tutto il mondo e di colmare il divario tra lingue, culture, religioni diverse… Ma è importante anche aver presenti i limiti di queste forme di comunicazione: pensiamo in particolare al modo in cui omogeneizzano l’esistenza singolare in forme di espressione “standard” e predefinite, come emoji, gif, “mi piace”. In questi contesti possiamo scegliere tra molte opzioni, che però sono esterne alla nostra dimensione spontanea e creativa, che invece è importante preservare».
In che modo l’uso delle immagini e della comunicazione visuale, soprattutto sui social network, può facilitare od ostacolare l’autenticità della relazione Io-Tu?
«Le immagini hanno un grande potere. Possono aprirci prospettive critiche sulla realtà; possono suggerirci la presenza dell’invisibile; ma possono anche appiattire la profondità dell’esistenza. Un selfie, ad esempio, può seguire ciecamente le “regole” del mercato e degli standard di popolarità sui social media, ma può anche, seppur di rado, esprimere gli aspetti più creativi e personali di sé».
Nel suo recente libro (Photography and Its Shadow, Stanford University Press 2020), lei sostiene che la fotografia è diventata una dimensione pervasiva dell’esperienza umana, ma che allo stesso tempo è una condizione storica in via di trasformazione, che potrebbe già essere in declino. Potrebbe approfondire questa idea?
«Sì, sostengo che stiamo sperimentando un nuovo paradigma di immagini che è già post-fotografico. All’inizio è difficile riconoscerlo, perché siamo affascinati e abituati alla forma fotografica. Ma di fatto la fotografia, con il suo peculiare rapporto temporale con la realtà, non è più al centro delle nostre forme di rappresentazione».
Lei presiederà una delle sessioni di Estetica al Congresso Mondiale di Filosofia di Roma, nel 2024. Il Congresso sarà dedicato al tema “La filosofia attraversa i confini”. Quali sono le principali sfide che la filosofia dovrà affrontare nei prossimi anni?
«La filosofia è “amore per la saggezza”. Oggi, in un mondo segnato dalla comunicazione sempre più veloce, dalla vita mercificata, dell’ascesa di nuove forme totalitarie con fake news e fatti alternativi, diventa difficile trovare un posto e un tempo per il pensiero. Tuttavia, i filosofi non hanno mai chiesto libertà di pensare, né la chiederanno mai, perché non hanno bisogno dell’approvazione di alcun regime. Inoltre, come dice Emmanuel Lévinas, la filosofia dovrebbe essere intesa anche come “saggezza dell’amore”. Proprio come per il Pensiero, è difficile oggi, in quest’epoca ultra- capitalista, riuscire a raggiungere le condizioni necessarie per l’Amore. Eppure, contemplazione e amore non sono mai dati. Spetta a noi creare le condizioni che li rendano possibili: è questo, a mio parere, uno dei ruoli centrali della filosofia».