Lo scrittore inglese Graham Greene - -
Anticipiamo una parte del testo che il fondatore del Gruppo Abele e di Libera, don Luigi Ciotti, ha scritto per la nuova edizione di Il potere e la gloria di Graham Greene (traduzione di Adriana Bottini, Oscar Mondadori, pagine 288, euro 14,00, in libreria da oggi). Pubblicato per la prima volta ottant’anni fa, nel 1940, il romanzo del grande scrittore britannico è accompagnato per l’occasione anche da una postfazione del narratore statunitense John Updike.
Non ho le competenze per dare una valutazione letteraria di Il potere e la gloria di Graham Greene, ma che sia un libro bellissimo credo di poterlo, anzi di volerlo dire. E non mi sorprende che a difenderlo, quando negli anni Cinquanta suscitò scandalo in certi ambiti della Chiesa, fu con una lettera al Sant’Uffizio – l’attuale Congregazione per la dottrina della fede – l’allora pro–segretario di Stato Giovanni Battista Montini, che divenuto in seguito Paolo VI incontrò nel luglio del 1965 il grande scrittore inglese in udienza privata per attestargli tutta la sua stima. Paolo VI, un Papa di cui non è stata ancora riconosciuta, a mio avviso, tutta la grandezza. Un Papa dallo sguardo aperto e penetrante, capace di guardare lontano e in profondità. Un Papa che volle essere guida e non, come disse, “semplice notaio” del Concilio Vaticano II, svolta di una Chiesa tesa a vivere il Vangelo nel mondo, tensione oggi incarnata nei gesti e nelle parole di papa Francesco. C’è molto Concilio in quel suo auspicare e testimoniare una Chiesa “in uscita”, rivolta alle periferie urbane ma anche esistenziali, una Chiesa povera per i poveri. Ed è proprio questa la chiave che sento più consona per parlare della storia narrata magistralmente da Graham Greene, dramma di un sacerdote in fuga dalla persecuzione anticattolica che insanguinò il Messico tra gli anni Venti e Trenta, ma in fuga anche da se stesso, da una coscienza che non cessa di ricordargli i suoi peccati – l’alcolismo, la violazione del celibato, una figlia – e le violenze di cui si sente indirettamente responsabile, essendogli mancato il coraggio di autodenunciarsi e scegliere il martirio: setacciando infatti i villaggi per scovare i sacerdoti in clandestinità, l’esercito aveva fucilato tutte le persone sospettate di averli nascosti o anche solo accolti.
Voglio dire che il racconto di Greene mi sembra una grandiosa metafora del tema della fede, tema che non concerne la dottrina – non si può certo “imporre” di credere – quanto l’etica, il modo in cui la relazione con Dio s’incarna nelle nostre parole, scelte, condotte. Etica della fede oggi al centro del disegno riformatore di papa Francesco, come si evince da affermazioni quali: «Una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo», oppure: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze». Passi, entrambi, della Evangelii Gaudium, l’esortazione apostolica con cui, nel 2013, Francesco ha posto le basi del suo pontificato. Senza la pretesa di ergermi a interprete delle parole del Papa, mi sembra però chiaro che esse evidenzino la profonda differenza tra una fede chiusa nella dottrina e una fede aperta al mondo. La prima vissuta come roccaforte e porto sicuro, con il rischio di ridursi a dogma, a presunzione di verità (ed è noto come in certi frangenti la dottrina irrigidita in dogma sia stata strumento di esclusione, di condanna, persino di morte). La seconda, invece, vissuta come ricerca di verità e impegno per la giustizia. E dunque anche come dubbio: non sull’esistenza di Dio, ma sul nostro testimoniare non solo a parole la Sua Parola, nel segno di un Vangelo non soltanto predicato ma vissuto. [...]
È evidente che la vicenda raccontata da Greene, ispirata da un suo viaggio in Messico nel 1938, esorbita da questo orizzonte, concerne un modo di vivere la fede ancora lontano dalle consapevolezze che diedero forma e vita al Concilio Vaticano II. Al centro è infatti soprattutto il tema della salvezza dell’anima e della vita moralmente specchiata a cui sono chiamati i ministri del culto, impassibili alle tentazioni mondane e ai desideri della carne. Ma sospinto da una fede inquieta e profonda – protestante, si era convertito ventiduenne al cattolicesimo – lo scrittore tratteggia nel carattere del protagonista elementi di una spiritualità che sarebbe emersa più avanti, con l’approssimarsi della Chiesa al mondo e a un’esperienza più integrale dell’umano. Accade così che il “peccatore”, il sacerdote tormentato e incapace di venire a patti con la coscienza, diventa paradossalmente testimone di una vita evangelica. Sì, perché quella coscienza inquieta, in costante ebollizione, se da un lato è tormento e croce, dall’altro continua a essere fonte di stupore e compassione, finestra spalancata sulla vita.[…]
Ecco allora che, alla luce di queste considerazioni, Il potere e la gloria mi sembra un libro più che mai attuale, a ottant’anni dalla pubblicazione. E non solo perché sono ancora tanti, in diverse parti del mondo, i cristiani perseguitati – i dati più recenti parlano di 2.983 persone uccise nel 2019 a causa della loro fede –, ma perché oggi la Chiesa si trova ad affrontare una sfida cruciale: testimoniare e vivere il Vangelo in un mondo dominato da quello che papa Francesco ha definito «sistema ingiusto alla radice », alimentato da «un’economia che uccide». Un sistema che sacrifica sull’altare dell’idolo denaro la dignità e la libertà di milioni di persone. Disuguaglianze inedite nella storia di fronte alle quali il credente non può restare zitto e inerte: a impedirglielo è il Vangelo stesso, testo che come nessun altro ha sintetizzato Cielo e Terra, spiritualità e politica nel senso dato al termine proprio da Paolo VI: «la più alta ed esigente forma di carità», carità come servizio per il bene comune e denuncia degli abusi e delle ingiustizie che quel bene distruggono o derubano.