Fucilati italiani della Grande Guerra: dopo l’inchiesta di
Avvenire sulle esecuzioni sommarie, le decimazioni e lo spietato rigore della giustizia militare – pubblicata sabato e domenica scorsi – qualcosa sembra finalmente muoversi, aprendo delle brecce nel muro di silenzio che ha finora circondato questa triste pagina della nostra storia nazionale. Con grande sensibilità, infatti, il ministro della Difesa
Roberta Pinotti propone di «istituire un gruppo di lavoro per fare luce sui soldati italiani fucilati nel corso della Grande Guerra, vittime di singole esecuzioni o di decimazioni sommarie effettuate "sul posto", senza processo». Il ministro, che ne ha parlato con il suo predecessore Arturo Parisi, spiega che è necessaria «un’iniziativa per fare chiarezza sui numerosi casi documentati dalla storia, dai racconti, dalle lettere. Barbare uccisioni che rischiano di cadere nell’oblio».Pinotti ricorda che i soldati «vittime di tali esecuzioni sono spesso stati uccisi semplicemente per mantenere l’ordine tra le truppe stremate dalla fatica o ancor più banalmente per “dare l’esempio” ai commilitoni» e «oggi non figurano nemmeno nell’elenco dei caduti».
Il ministro prosegue: «Le celebrazioni della Grande guerra contribuiscono ad alzare il velo su vicende che non possiamo permetterci di dimenticare. Con equilibrio e con le garanzie necessarie, la giustizia, dove possibile, deve poter restituire l’onore agli innocenti». E conclude: «I tempi sono maturi per un’accurata e scrupolosa operazione di giustizia storica e morale, lontana da preconcetti. È doveroso nei confronti di chi ha perso la vita lottando per il nostro futuro e lo è nei confronti delle nuove generazioni, affinché la memoria diventi occasione di crescita e insegnamento anche per i nostri giovani».Anche in Parlamento l’idea di sollevare il velo sulle "vittime" della giustizia militare trova consensi bipartisan.
Elio Vito (Forza Italia), presidente della Commissione Difesa della Camera afferma: «Sono d’accordissimo che questo capitolo doloroso dei fucilati vada riaperto, soprattutto in occasione del Centenario della guerra. Tra i condannati a morte ci sono stati casi di vera e propria ingiustizia, ma è l’intero fenomeno politico e sociale che va portato alla luce con chiarezza e coraggio. Si potrebbe pensare a una commissione di studio, con storici, militari e parlamentari. Credo che l’iniziativa spetti soprattutto al ministero della Difesa e al governo. Ma, almeno per quanto mi riguarda, come presidente di Commissione sono pronto a fare la mia parte in Parlamento».
Nicola La Torre (Pd), presidente della Commissione Difesa del Senato, ritiene che «sia una iniziativa opportuna quella di istituire una commissione che ricostruisca rigorosamente il tema della giustizia sommaria nell’esercito italiano durante la Prima guerra mondiale e che restituisca dignità e memoria ai soldati uccisi. La prima guerra mondiale con l’enorme sacrificio dei soldati e della popolazione di allora – aggiunge l’esponente democratico – ha avuto un’importanza fondamentale non solo nel disegnare i nostri confini, ma anche nel processo di costruzione della nostra identità nazionale e della nostra coesione sociale e culturale. Anzi, si può dire che è stata a prima grande esperienza collettiva del popolo italiano da cui, al di là delle conseguenze politiche, è scaturita una nuova e più vasta consapevolezza del nostro essere una nazione».Nel mondo militare, il generale di corpo d’armata
Fabio Mini, che fu comandante della missione Onu in Kosovo, afferma: «Celebriamo l’anniversario della Prima guerra mondiale come un secondo Risorgimento se non addirittura l’ultimo atto del Risorgimento nazionale. E ricordiamo l’eroismo di molti e il sacrificio di tantissimi cittadini italiani. La retorica fascista successiva al conflitto fece diventare tutti gli ex combattenti il bacino d’incubazione del fascismo, ma i numeri della giustizia militare parlano chiaro: gli italiani da poco riuniti sotto la bandiera sabauda non volevano la guerra e non volevano farla».
Mini ricorda: «Il peso maggiore fu sostenuto dai "costretti": gli ufficiali di complemento, i contadini e i poveracci senza istruzione e senza futuro. I più accaniti guerrafondai si trovarono fra i militesenti, i mitomani e i profittatori che comunque la guerra la facevano fare agli altri. La macchina militare fu impegnata nella repressione della disobbedienza e la caccia al renitente divenne l’attività di polizia militare più importante. La fretta di concludere i procedimenti penali e di “dare l’esempio” trascurò le ragioni profonde del fenomeno e i suoi effetti devastanti. Alla fine della guerra vaste aree dell’Italia contadina erano abitate da vedove e orfani di caduti in guerra. Ma quasi un decimo delle famiglie che avevano dato soldati, erano diventate famiglie di "delinquenti" che avevano rifiutato la guerra semplicemente perché non si potevano permettere di lasciare le famiglie o di avere un avvocato». E allora, conclude il generale, «più che celebrare, dovremmo ricordare, ma ricordare tutto».Tra gli storici, interviene anche
Mimmo Franzinelli: la proposta lanciata dal professore Nicola Labanca su
Avvenire «è a un tempo necessaria e doverosa. Auspico che si apra una seria e risolutiva discussione sull’argomento che stimoli gli storici a porre con chiarezza la questione, sinora condannata all’oblio».