Bambini armeni deportati a bordo di un treno - undefined
Sul genocidio armeno del 1915 lo scrittore Franz Werfel scrisse un libro, I quaranta giorni del Mussa Dagh, apparso nel 1933, che circolò in tutto il mondo, facendo conoscere questa tragedia. Un testo famoso. Meno noto è che dall’Ottocento in Germania - già prima dei massacri contro gli armeni perpetrati a fine secolo dal sultano Abdul Hamid II - circolava una pubblicistica periodica e anche una letteratura popolare, di consumo, che dipingeva l’armeno con gli stessi stereotipi usati per gli ebrei. Un campione di questa nefasta pratica fu un long seller dell’epoca, Karl May, il Salgari tedesco. «Un ebreo inganna dieci cristiani, uno yankee cinquanta ebrei; un armeno inganna addirittura cento yankee… Ovunque ci sia un po’ di malizia e un po’ di tradimento, certo verrà fuori che il naso di falco dell’armeno ne è implicato», si legge in una sua opera, citata dallo storico Stefan Ihrig, direttore del Centro di studi germanici ed europei dell’Università di Haifa, nel suo monumentale saggio Giustificare il genocidio. La Germania, gli armeni e gli ebrei da Bismarck a Hitler (Guerini e associati, pagine 496, euro 35,00).
Una ricerca che istituisce un parallelo storico tra il destino dei due popoli. E si situa, dunque, in Germania, ancor prima che in Turchia o Armenia. Ma che ha portata più vasta, perché il Metz Yeghern è «parte della nostra storia e del nostro patrimonio mondiale» ed è «forse il peccato originale del XX secolo». Questo ben prima che il polacco Lemkin arrivasse alla definizione del genocidio nel 1944. Spinto anche da una frase di un suo professore che a una domanda sulle stragi armene, rispose che come un contadino può uccidere le sue galline, così un governante i suoi sudditi.
Il libro, spiega ad Avvenire la scrittrice Antonia Arslan, che ne è la curatrice, è «molto importante perché dimostra definitivamente che l’idea di quel tipo di sterminio non è nata improvvisamente nelle menti dei Giovani Turchi, ma era in qualche modo preannunciata da una lunga presenza di odio anti-armeno in tutta la stampa tedesca e nella letteratura». Un’indagine che si collega a quella condotta sulla stampa turca dalla studiosa americana Siobhan Nash-Marshall, che firma la prefazione al libro di Ihrig, in I peccati dei padri. Negazionismo turco e genocidio armeno (pubblicato sempre da Guerini nel 2018).
May, del quale non a caso Adolf Hitler fu un vorace lettore, riprendeva quasi alla lettera il “racconto del vasaio”, un testo infarcito di descrizioni degli armeni come pronti a vendere mogli e figlie, dediti all’usura e via di questo passo, riportato in un articolo dal pastore protestante Friedrich Naumann, dopo un viaggio in Terra Santa al seguito del Kaiser. Una «citazione chiave dell’anti-armenismo tedesco», nota Ihrig. Il paradosso è che Naumann partiva da posizioni filo-armene. Una contraddizione che troviamo in altri personaggi, come Max Erwin von Scheubner-Richter, che da console nell’Anatolia dell’Est aveva raccontato in modo partecipe il genocidio del 1915. Ciò non gli aveva impedito di schierarsi a fianco di Hitler. E addirittura di cadere ucciso durante il Putsch del 1923, divenendo un martire del nazismo.
Ci fu comunque, una serie di tedeschi che, pur nazionalisti, si schierarono senza se e senza ma per la causa armena. Uno su tutti un altro pastore protestante, Johannes Lepsius, che si batté contro il genocidio del 1915, andando incontro alla censura per via della posizione filo-ottomana dell’Impero.
Il libro, diviso in quattro parti, inizia proprio con la politica del Kaiser e di Bismarck che vedevano il problema armeno come una questione interna a un’area geopolitica che consideravano cruciale per la stabilità europea. E ovviamente per motivi economici. Il legame tra i due imperi fu forte e incentrato sulla forza militare. Tanto che le truppe turche furono a lungo istruite dal generale Colmar von der Goltz, che ottenne per questo, unico tra i non turchi, il titolo di Pascià. «Un segno di come l’esercito diventi ciò davanti al quale ci si deve inchinare, si militarizza la società», nota Arslan.
Il secondo capitolo tocca il genocidio vero e proprio e le testimonianze che arrivavano in patria da diplomatici, missionari e viaggiatori tedeschi, Ma il cuore del libro è il dibattitto degli anni Venti. Dopo la dissoluzione degli Imperi c’era un risentimento verso quelli che erano considerati i rispettivi nemici interni, ebrei e armeni. Che porterà come conseguenza l’idea che «il genocidio non era soltanto concepibile nella Germania dell’epoca, ma fu anche ampiamente discusso attraverso il prisma della visione del popolo armeno come uguale, simile o peggiore di quello ebreo».
Un parallelo che prosegue nell’immaginario se si pensa che il romanzo di Werfel, che racconta di un episodio di auto-difesa degli armeni alla Montagna di Mosè (Mussa Dagh) fu molto letto nei ghetti ebraici. E in Palestina, dove ispirò un piano di resistenza all’avanzata delle truppe di Rommell, trasformando il Monte Carmelo in un Mussa Dagh ebraico. Il culmine del filo-armenismo nella stampa tedesca si raggiunse con il processo a Soghomon Tehlirian, che nel 1921 aveva ucciso a Berlino il ministro degli Interni ottomano Talat Pascià. Durante il processo emerse una testimonianza agghiacciante in prima persona del genocidio che colpì l’opinione pubblica: e anche la corte che assolse l’imputato benché reo confesso.
Ma in seguito il partito anti-armeno ebbe la meglio. I nazisti, poi, «hanno ereditato come accettabile l’idea che un governo con i propri sudditi può fare quello che vuole se li ritiene un pericolo per lo Stato. Indipendentemente dal fatto che siano vecchi, donne bambini innocenti. L’idea è quella dell’annientamento. Una razionalizzazione pervasiva che è stata la causa dell’accettazione così repentina della persecuzione degli ebrei».
Un parallelo che anche l’autore fa in conclusione della sua fatica, aprendo il discorso all’oggi. Innanzitutto, argomenta, non ha senso stabilire se senza il genocidio armeno la Shoah sarebbe avvenuta o meno. O se, dato che l’odio antiebraico nazista difficilmente avrebbe risparmiato le sue vittime, questo sarebbe avvenuto secondo altre modalità. Il fatto è che i due eventi, molto vicini ne tempo, furono «intimamente e direttamente collegati». Il modo in cui il genocidio armeno venne recepito fu «un’enorme “motivazione” » per motivi legati al nazionalismo e per l’assenza di un deterrente, di una condanna. «Allora – incalza Ihrig – urge domandarsi se, dalla Seconda guerra mondiale il mondo abbia fatto abbastanza per dissuadere gli Stati dal massacrare le popolazioni civili. Qual è il nostro deterrente?». Domanda di estrema attualità.