Il monumento a Excalibur a Llanberis, in Galles - Brian Deegan CC BY-SA 2.0
Mettere il lettore di un libro appena aperto alla prova di un avvio banale, convenzionale, non è considerata cosa né elegante né intelligente. Quando succede (e Dio sa quante volte…), si pensa che l’autore delle pagine introduttive sia scarsamente convinto di quel che sta per scrivere, o più o meno infastidito per un impegno in un modo o nell’altro “obbligato”, o contrariato perché aveva altro e di meglio da fare, o talmente pieno di sé da ritenere che qualunque cosa scriva non potrà che andare benissimo, o così malintenzionato da inviare ai lettori un criptomessaggio svalutativo, e tanto sciocco da essere convinto che quelli capiranno. Il fatto è che a volte vale la pena di rischiare: perché gli avvii banali, convenzionali, possono essere più o meno abili e più o meno intelligenti, a volte sono ingenui e altre retorici, ma hanno di solito un pregio: sono onesti, dicono esattamente quel che vogliono dire. E allora, tanto vale mettersi orgogliosamente in gioco, nonostante il rischio di apparire presuntuosi e ridicoli. Perché è un mettersi in gioco che presuppone una certa considerazione di se stessi, con tutto quel che comporta.
Ebbene, sì, diciamolo, banalmente, convenzionalmente, questo Excalibur. La spada nella roccia tra mito e storia di Francesco Marzella (Salerno, pagine 176, euro 18) è un libro che da tempo ci voleva e che eravamo in molti ad aspettare. Non solo il libro di Marzella, ma un libro su un argomento di quelli che non sono certo nuovi, anzi semmai sono antichissimi, ma appaiono sempre solo parzialmente esaurienti per l’eccellente ragione che appartengono a una problematica inesauribile. Per convincerne chi nutrisse qualche dubbio al riguardo, basta invitare i perplessi a una rapida scorsa dell’indice dei soli nomi, magari limitandosi ai moderni. Scelta soggettiva e rischiosa, direte voi: dal momento che, se in uno studio scientifico manca un antico autorevole autore, o una fondamentale fonte, ciò costituisce senza dubbio un indizio almeno d’incompletezza, comunque comprensibile; mentre si può omettere un autore moderno per infinite ragioni tutte legittime. Atteniamoci comunque a una scelta minimale e contestabile; e verifichiamo: direi che ci sono quasi tutti quelli che un addetto ai lavori di archeologia e di scienza delle mitologie e delle religioni, di filologia (o delle varie filologie) e di glottologia, di etnologia e di antropologia culturale, di storia antica e di storia medievale, perfino di simbologia e di psicanalisi possa aspettarsi: da Aebischer a Zambon passando per Dona, Dumezil, Frazer, Gurevi, Segre, Tolkien e cosi via. E chi manca in apparenza all’appello viene regolarmente recuperato per via indiretta. Un libro coraggioso, che rifugge da pretese totalizzanti e resta anzi ben fermo nelle sue dimensioni collegate al mondo arturiano; un libro che ha sempre ben chiaro il senso del limite e della sua esplorabilità e che non viene pertanto mai meno a quella necessità di precisione e di concretezza (a quella mesure, direbbero i vecchi cari autori delle chansons de geste) che viceversa certi audaci, ma anche velleitari cercatori degli orizzonti illimitati sovente dimenticano o, peggio, disprezzano preferendo ipotetici e indiziari funambolismi, superficiali analogie travestite da eleganti affinità legate magari da pretesi canali ermetici.
Qui è in causa l’intero mondo arturiano, con tutte le sue antiche radici e le sue infinite propaggini. Qui gli archetipi della Spada e dell’Albero, della Pietra e della Grotta, della Porta e del Ponte, della Regalità e del Sacerdozio, della Pace e della Guerra, della Verita e della Giustizia svelano uno per uno la loro arcana potenzialità come le kenningarnorrene che varcavano i mari e cavalcavano le nubi con la forza evocatrice delle parole e dei nomi, segni sempre e comunque per noi (la lunga pratica biblico-esegetica ce l’aveva insegnato prima ancora che Jung ce lo ricordasse) della Parola che sta sempre al principio di tutto, del Nome dinanzi al quale ogni ginocchio si piega in cielo, in terra e nell’abisso. Il racconto di Marzella prende le mosse da uno scenario storico tanto concreto nello spazio e nel tempo quanto obiettivamente esemplare e, si direbbe, archetipico: quello evocato da Ruggero di Howden. Ed ecco Riccardo d’Inghilterra, del quale a torto o a ragione hanno sognato generazioni intere di europei da Walter Scott in poi, e la Catania di fine XII secolo, a poche leghe dal luogo nel quale si nascondeva il calabrese abate Gioacchino di spirito profetico dotato: la città di lava nera, dominata dal gigante di fuoco nelle viscere del quale si diceva – teste il vecchio Arturo Graf... – dormisse Artù, rex quondam rex futurus, alla vigilia di quella terza crociata nella quale sarebbe scomparso Federico I, il Barbarossa, che a sua volta aveva fatto la sua fugace comparsa nel processo di canonizzazione di Galgano Guidotti la cui leggenda agiografica reca tratti così inconfondibilmente arturiani e che a sua volta, secondo una leggenda che richiama un’altra Montagna Sacra, dorme nelle viscere del turingio Kyffhäuser sotto l’immensa mole del monumento di pietra rossa dedicato a Federico Guglielmo, Barbablanca, fondatore del Secondo Reich. Che cosa si sapeva allora, nella penisola italica, di Artù e di Avalon, l’“isola di cristallo” nella quale (o nell’abbazia benedettina di Glastonbury che topograficamente si diceva equivalerle) il padre di re Riccardo aveva rinvenuto – l’inventio, questo atto fondante d’una tradizione... – il sepolcro di Artù e di Ginevra, già protagonisti del racconto di pietra scolpito fra terzo e quinto decennio del XII secolo nell’arco della Porta della Pescheria del duomo di Modena? E come, e da quando, il tema della “spada nella roccia” – dotato di tanto fascinosa analogia con quelli della spada nell’albero o nell’incudine – era già noto sulle colline metallifere toscane ricche di miniere d’argento, dove i resti imponenti dell’abbazia cistercense di San Galgano restano ancora a guardia dell’oratorio di Montesiepi al centro della cui “rotonda” ad instar dominici Sepulchri Jesu resta ancora, arcanamente immersa nella roccia fin quasi all’elsa cruciforme, la spada del santo cavaliere Galgano, il nome del quale rinvia al valoroso nipote del sovrano signore della Tavola Rotonda?
Prendendo spunto da un atto fra i più significativi della cultura cavalleresca del XII secolo e, come ha ben mostrato Marcel Mauss, di tutte le culture tradizionali, l’indagine di Marzella ne fa di strada: dal Medioevo italico, che spesso riaffiora, a quello inglese, e quindi alla “mitologia cristiana” (e/o cristianizzata) delle tradizioni cavalleresche graaliche da Robert de Boron a Thomas Malory al mondo celtico tanto insulare quanto peninsulare a quello germanico, sia anglosassone del Beowulf, sia scandinavo delle saghe fino alle arcane alture del Caucaso da dove prese origine la cultura del cavallo da guerra e della sacralità del ferro forgiato, alle alture consacrate al martirio di Prometeo e alla poesia epica alanoosseta alla quale tanto sembrano dovere sia Omero che Virgilio fino all’orso, totem astrale del Re-Cavaliere il cui ritorno è stato per generazione atteso dai bretoni: e qui è impossibile pensare a quel che non c’è ma che potrebbe perfettamente rientrarci, a un’altra linea simbolico-tradizionale che ci condurrebbe fino agli ainu e ai nativi americani delle praterie. Una narrazione spiraliforme dove a ogni istante si ha la sensazione di essere sul punto di perdersi e dove tuttavia attraverso infinite variazioni di prospettiva tutto ritorna e nulla si smarrisce. Ci stupiremo e ci scandalizzeremo se, alla fine, ci capiterà d’imbatterci anche in John Boorman e in Maga Magò? Molto tempo fa ci capitò di parlare piú volte e anche a lungo, a Marzella e a me, di queste cose. Galvano e Galgano fanno parte di una problematica che ho praticato a lungo. A Marzella sento di dovere ancora almeno un breve viaggio in Val di Merse, tra Siena e Grosseto, alla ricerca della reliquia della "spada nella roccia" che ci aspetta lassù, tra gli alberi di Montesiepi. Magari con una rinfrancante sosta in qualche bella osteria maremmana, tra Chiusdino e Roccastrada. Al parroco di Montesiepi, porteremo in dono una copia di questo libro. Ne ha diritto.