il grande trombettista jazz, Paolo Fresu, 63 anni, genius loci del paese sardo di Berchidda che dal 1988 ospita il Festival "Jazz in Time" - Roberto Cifarelli
«Avevo 22 anni quando Chet Baker mi sentì durante una prova e disse che il mio Monk era ok La tromba è la mia voce con cui parlo da sempre a chi viene ad ascoltarmi» Il grande musicista di Berchidda racconta oltre quarant’anni di carriera e lo fa con un disco, “Legacy” e un docufilm sul festival che organizza nel suo paese Una volta Franca Valeri ci disse: «Il talento è timido ». Tradotto: i grandi, di ogni campo, sono sempre umili. E l’umiltà del talento musicale del 63enne Paolo Fresu deriva dalla maestria con cui suona la tromba che ne fa il “Miles Davis bianco”, ma soprattutto dalla sua “Macondo”: il villaggio sonoro di Berchidda, piccola grande capitale, dal 1988, del festival “Time in Jazz” (la 37ª edizione sarà dall’8 al 16 agosto). E per comprendere il genius loci, occorre andare alle radici, a Berchidda, dove tutto è iniziato, nel tentativo di acciuffare la “chimera”: la tromba del fratello, l’architetto Antonello, riposta troppo in alto negli scaffali del salotto di casa Fresu per essere afferrata dal piccolo Paolo. «Mio fratello suonava la tromba nella banda di Berchidda, che quando passava uscivo di casa in pigiama per seguirla nelle strade del paese. Ma non avevo ancora quella tromba che i miei consideravano un investimento prezioso e lo difendevano mettendolo a riparo, lassù in cima, per impedirmi di toccarla. Ma alla fine ce l’ho fatta, l’ho toccata e presa, e con quella sto “parlando” da tanto tempo». Da quarant’anni la sua tromba loquace, unica, romantica e struggente, è accompagnata dallo storico Quintetto. Come testimoniano i tre cd dell’ultima raccolta, Legacy (Tuk Records). Nel libretto del disco, Fresu ricorda che sono 40 anni con il Quintet, 20 con il Devil Quartet e 22 anni quelli ben spesi in duo con il pianista e compositore americano Uri Caine, con il quale nel novembre 2014, si sono esibiti in concerto nel tempio della lirica, alla Scala di Milano. Ai suoni della sua tromba «strumento femminile che si tinge di rosa e che traduce tutti i miei pensieri», è necessario poi unire le immagini del sapienziale docufilm Berchidda Live: un viaggio tra gli archivi di Time in Jazz, realizzato da Gianfranco Cabiddu, Michele Mellara e Alessandro Rossi. Un doc (nelle sale) che celebra qualcosa di più di un semplice festival della musica jazz, trattasi infatti di un fenomeno di antropologia culturale.
Fresu, ma come sbarca il jazz in un paesino di 2mila e 500 anime dell’entroterra sassarese?
«Me lo chiedo anche io, da 36 anni a questa parte - sorride -. Mai avrei immaginato di portare la tradizione afroamericana a contatto con quella sarda e di farle convivere proprio qui, nel mio paese. Lo considero un piccolo miracolo, un segno di riconoscenza e di responsabilità verso le mie radici e i valori forti che mi ha trasmesso la mia famiglia».
Radici non musicali e non da figlio d’arte.
«Radici musicali no, ma poetiche sì. Papà era un pastore che si dilettava ad appuntare, tutti i giorni, su un quadernino delle parole desuete e poi scriveva poesie in dialetto logudorese. Crescendo, ogni Natale per regalo abbiamo cominciato a stampare 4 copie di quei quaderni: una per mio fratello, una per me e due per papà. La quarta copia, la meno nobile, la usava per darla in prestito a qualche amico che dopo averla letta la rimetteva in circolo a Berchidda o nei paesi vicini».
Sembra un racconto di Sergio Atzeni che nel docufilm fa commuovere Lella Costa quando legge un passo del suo romanzo Passavamo sulla terra leggeri”. «... A parte la follia di ucciderci l'un l'altro per motivi irrilevanti, eravamo felici».
«Atzeni racchiude una verità ancestrale della Sardegna che valeva ieri e ancor di più oggi. Lella che è una cara amica e che conosce il valore pregnante della nostra cultura non poteva non emozionarsi nel leggere quella che considero la sintesi perfetta della storia di noi sardi che avvertiamo il senso profondo di appartenenza alla terra ma anche il misterioso richiamo del mare».
La sua tromba è un po’ il canto delle sirene per tutti gli amanti del jazz che approdano nell’Isola.
«La tromba è lo strumento più vicino alla voce, quello che attraverso le labbra fa vibrare di più il nostro corpo. Nella storia del jazz molti grandi musicisti, Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Chet Baker… hanno unito la voce della tromba alla loro voce. Io non ho bisogno di cantare, a dire il vero non ne sono capace, ma canto con lo strumento. E in ogni nota che faccio, c’è una relazione, un’idea melodica. Con lo stesso pistone si realizza l’incanto di 10 note diverse e altrettanti suoni, e tu devi sapere quale suono devi fare uscire. Devi pensare all’esito finale. In tutti questi anni ho lavorato su un’idea di suono, voce e espressività, e in questa direzione vanno i miei progetti sulle arie di Vincenzo Bellini, le fughe di Bach, la musica Barocca, il Laudario di Cortona che rimanda a quei pellegrini che giravano per l’Europa alla ricerca anche di nuove melodie e di nuovi suoni».
Che legame c’è tra Fresu e lo strumento?
«Per me la musica è l’odore acre dell’olio dei pistoni della tromba da lubrificare. Non è mai lo stesso strumento quello che suono ad ogni concerto, ma dei prototipi che degli artigiani costruiscono apposta per me. Me li fanno senza doratura, suonano meglio e poi sembrano vecchi perché si ossidano subito. Non ho una relazione estetica con lo strumento perché non è lui l’oggetto del mio desiderio ma è la funzione che assolve ad essere fondamentale. Ci soffi dentro e si apre un mondo, è una cosa potentissima che fin dagli inizi sapevo che avrebbe cambiato per sempre il mio modo di guardare il mondo».
E agli inizi ci fu l’incontro magico con il grande Chet Baker.
«Accadde al Festival Jazz di Sanremo. Avevo 22 anni e appena arrivato scoprii con grande emozione che il giorno dopo suonava anche Chet. Dopo le prove stavo rimettendo la tromba nella custodia quando dalla penombra della platea vidi un uomo avanzare, lentamente. Veniva verso di me e solo quando fu sotto il riflettore capì che era lui, Chet Baker. Cominciai a tremare come una foglia e lui in un italiano neanche troppo maccheronico mi disse: Round Midgnight lo hai fatto proprio come Monk. Bravo! » Non ho detto una parola, poi Chet con la stessa lentezza con cui si era presentato si è dileguato… L’ho rivisto di sfuggita a Parigi, camminava con la tromba sotto braccio, ma quel giorno ancora una volta non ho avuto il coraggio di fermarlo. Non l’ho mai ringraziato personalmente, ma lo faccio tutte le volte che suono e anche nei miei ascolti quotidiani».
Il docufilm su Berchidda racconta molto della sua anima in costante ascolto.
«Il film è stato realizzato per spiegare come la musica sia un grimaldello per aprire quelle porte che altrimenti potrebbero rimanere chiuse a lungo o addirittura per sempre. La musica diventa strumento per scoprire luoghi unici e spesso distanti dalla realtà in cui viviamo ciascuno di noi. “Time in Jazz” possiede una sua magia: in tutti questi anni ha avuto il potere di fare incontrare migliaia di persone arrivate da ogni dove, che hanno condiviso emozioni forti, a volte si sono sposate e fatto anche dei figli... Qui a Berchidda, grazie alla musica, è germogliata la pianta della cultura. E cultura significa fare qualcosa che attraverso l’arte arricchisce e rimodella un territorio personale e collettivo».
A “Time in Jazz” a un certo punto la musica ha incontrato il sacro con dei concerti che sanno di “ora mistica”.
«È una scoperta avvenuta verso la metà degli anni ’90. Abbiamo iniziato con Antonello Salis nella chiesa di campagna di Santa Caterina dove c’è la Confraternita dei pastori. Da bambino quel giorno di festa mio padre ci portava sulla sua Fiat 500 bianca con il tettuccio apribile, carica di fieno e latte, e io in piedi sul sedile sventolavo la bandiera di Santa Caterina e mi sentivo il presidente degli Stati Uniti... In quel primo concerto, sentire le voci del coro della Confraternita Sarda mi commossero fino alle lacrime. La musica ha una sua spiritualità che non ha nulla a che vedere con la religione e la conferma la trovo in una fotografia di Nina Contini Melis, moglie del contrabassista Marcello Melis che ci ha lasciati trent’anni fa, scattata nella meravigliosa basilica di Sant’Antioco di Bisarcio: ritrae il musicista e cantante tunisino Dhafer Youssef di cui si vede solo il “ricciolo” del suo oud e dietro di lui la statua di sant’Antioco. In quello scatto c’è tutto il senso della multiculturalità, del dialogo interreligioso che grazie alla musica confluisce in un unico messaggio spirituale: l’amore è in grado di salvare il mondo».
Tra le tante immagini che costellano la sua carriera qual è quella che più lo rappresenta?
«La mia vita l’ho consacrata alla musica e come la musica la mia esistenza è in continuo movimento, quindi le immagini si rinnovano. Forse la foto più evocativa è uno scatto del 2011 assieme a un ragazzino al Cottolengo di Bosa. In quel preciso momento ho percepito quanto fosse utile e preziosa la mia musica. E la stessa sensazione l’ho avvertita suonando nei tanti luoghi di guerra dove mi piace pensare che il jazz, simbolo di incontro e di fusione dell’umanità intera, può tendere la mano e riportare l’armonia tra i popoli».
Nel jazz di domani ci sarà un giovane erede di Paolo Fresu?
«Ricevo tanta musica da ascoltare, ho una mia etichetta di produzione e i talenti in giro per il mondo ci sono. Ma i giovani vanno aiutati a crescere, loro hanno fame di comprensione e un bisogno continuo di consenso e di conferme, che aspettano da noi adulti che dobbiamo dare l’esempio. Io rispondo a tutti e lo ritengo un fatto di educazione, di rispetto, perché non dimenticherò mai quelle poche parole di Chet Baker: quel consenso e quella conferma, è diventata la colonna sonora della mia vita».