Hannah Arendt
L'onestà intellettuale è una virtù preziosa perché costa molto a chi la pratica, anche perché comporta la capacità di ammettere di essersi sbagliati. Una tale crisi si verifica per lo più a seguito di opere altrui, e dunque richiede un’altra costosa virtù: l’umiltà. Con il suo ultimo testo Arendt et Heidegger. Extermination nazie et destruction de la pensée (Albin Michel), recensito su queste pagine l’11 ottobre scorso, il filosofo francese Emmanuel Faye si può ormai annoverare tra gli studiosi che tipicamente, e temibilmente, provocano questo tipo di crisi evolutive.Il precedente pluritradotto Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia (ed. it. L’Asino d’oro) scatenò più di dieci anni fa un terremoto culturale, poiché portava alla luce le radici naziste e antisemite del pensiero di Heidegger ben prima che la recente pubblicazione dei primi Quaderni neri ne rivelasse esplicitamente l’antisemitismo. Il nuovo studio che ora Faye espone ai lettori si inscrive in quel precedente e rischia di provocare una reazione analoga.
Se infatti accusare il pensiero di Heidegger di nazismo significò mettere in causa gran parte della cultura che dal dopoguerra in poi aveva sposato l’ontologia di Essere e tempo, accusare ora Arendt di prossimità con tale pensiero significa confutare una sorta di intoccabile icona: donna intellettuale indipendente, ebrea sfuggita al nazismo, che sul nazismo ha riflettuto per l’intera vita.Quando si affronta uno dei lavori pionieristici di Emmanuel Faye bisogna dunque dotarsi di una buona dose di onestà intellettuale e spogliarsi dei pregiudizi, perché altrimenti si rischia di leggerli come ad occhi chiusi, vedendovi quello che non c’è. Ci si legge per esempio che secondo Faye «Hannah Arendt stessa è nazista» quando l’autore rifiuta esplicitamente una simile assurda tesi (cfr. p. 483). Mai infatti Faye, pur dimostrando che Arendt in Vita activa propone una visione disegualitaria e disumanizzante dell’umanità al lavoro, scrive che i suoi testi non andrebbero studiati in quanto opere filosofiche. Ben diversamente da Heidegger, i cui libri invece a suo parere dovrebbero collocarsi tra gli scaffali di storia del nazismo.
La netta distinzione tra i due pensatori tedeschi si riflette nella struttura di questo libro robusto e documentassimo, che in 500 pagine analizza prima le maggiori interpretazioni arendtiane dall’antisemitismo alla sua nozione di «totalitarismo», e poi, separatamente, il pensiero di Heidegger da Essere e tempo sino ai Quaderni neri. Solo nella parte finale e nell’Epilogo affronta l’evoluzione del rapporto intellettuale di Arendt con gli scritti del suo antico maestro e amante. Un procedimento analitico che si avvale di inediti e compara le edizioni dei testi arendtiani nelle diverse lingue, chiarendo così questioni sinora insolute se non nei termini di un fumetto rosa. Come ad esempio quella del «ritrovarsi» con Heidegger nel 1950 dopo diciassette anni di distanza assoluta, che in realtà, svela Faye, accadde a seguito di un’adesione intellettuale di Arendt anteriore a quell’anno, cioè alla sua Lettera sull’umanismo del 1947.
Ho parlato dell’onestà intellettuale che questo testo richiede perché io stessa in passato mi sono detta a lungo «arendtiana», pensando come molti che la sua nozione di natalità si opponesse all’heideggeriano essere-per-la-morte. Solo alla luce del precedente lavoro di Faye ho compreso che non c’era in realtà alcuna opposizione tra i due concetti, perché Arendt declina in termini di «prima nascita» l’esser-gettato di Essere e tempo, ne condivide la concezione pseudo-animale, ed eredita così la disuguaglianza radicale tra comunità umane che si cela nell’ontologia heideggeriana, solo spostando l’accento sull’appartenenza ad una comunità piuttosto che a un suolo. Come ora dimostra Faye, per Arendt l’individuo alla nascita non è propriamente un essere umano, perché l’umanità si realizzerebbe nella cosiddetta «seconda nascita» in virtù dell’appartenenza alla stessa comunità politica. Risulta così comprensibile ciò che prima era inspiegabile, come il suo negare diritto politico all’aspirazione dei neri americani di origine africana ad avere le medesime condizioni educative dei «bianchi», così come la sua critica della dichiarazione dei diritti dell’uomo che riconosce l’uguaglianza universale in virtù della sola nascita.
Per la sua profondità e accuratezza questo lavoro coraggioso segnerà irrimediabilmente, come il precedente rispetto ad Heidegger, l’inizio di una necessaria revisione critica del ruolo di Arendt nella nostra cultura e nel pensiero politico degli ultimi cinquanta anni. Da leggersi accanto a quello di Heidegger ma comunque ben separato, perché non è certo Emmanuel Faye colui che confonde vittime e persecutori, come pur sempre rimangono l’ebrea Hannah Arendt e il suo antico maestro e amante Martin Heidegger, che non ha mai sconfessato il nazismo perché, come si legge nei Quaderni neri, riteneva fosse necessario annientarli, gli Ebrei, per realizzare il presunto «altro inizio» dell’Occidente. Ovviamente a guida tedesca.