Totaro
Nel cognome del padre e della madre (Sanpino, pagine 96, euro 13,00) è un tentativo di indagine sulla famiglia che verrà. Luciano Moia, responsabile dell’inserto domenicale di “Avvenire” “Noi in famiglia” - erede dei mensili “Noi genitori & figli” e “Noi famiglia & vita” - punta a fare un po’ di chiarezza su una realtà in bilico tra le preoccupazioni di ingessare il passato - famiglia tradizionale, famiglia normale - e il dovere di avvicinarci alla concretezza della realtà e dei vissuti, accettando di confrontarci con la realtà che ci circonda anche quando lontana dai nostri parametri ideali. Anticipiamo qui alcuni stralci del primo capitolo.
La famiglia è viva, la famiglia non morirà, la famiglia continuerà a rappresentare il punto di riferimento delle relazioni che contano e che durano nel tempo, la famiglia è il passato, il presente e il futuro di tutti. Chi non sarebbe disposto a sottoscrivere queste affermazioni. Ma è proprio cosi? O, meglio, oggi è ancora così? In parte sì e in parte no. Innanzi tutto dobbiamo intenderci sul concetto di famiglia. E qui cominciano i problemi. Perché la famiglia della tradizione, quella dove c’è una mamma e un papà, che sono anche moglie e marito, e poi due o più figli, e poi magari anche i nonni che vivono insieme o magari al piano di sotto, è purtroppo quasi un reperto di archeologia sociale. Mettiamo da parte i nonni, non perché non siano importanti, tutt’altro. Quando sono presenti, disponibili e in buona salute, la famiglia può contare su un sostegno prezioso, dal punto di vista pratico e valoriale. Ma è una condizione sempre più rara. Sia per le trasformazioni socio-culturali, sia perché oggi spazi abitativi e condizioni di vita rendono quasi impossibile la permanenza nella stessa casa di più generazioni insieme. Parliamo quindi soprattutto di famiglie in cui ci sono entrambi i genitori con i figli. Cioè l’idea più tipica e codificata, quella a cui corre quasi inevitabilmente la nostra immaginazione quando pensiamo al concetto di famiglia. Ebbene, la realtà e le statistiche ci dicono che, nella maggior parte dei casi, la famiglia non è più così. Dobbiamo pensarla diversamente. Già oggi le coppie sposate con figli non rappresentano più la maggioranza delle famiglie ma, tra meno di vent’anni, saranno addirittura poco più del venti per cento. Una previsione che ci disorienta e un po’ ci angoscia. Perché è inevitabile chiederci chi e come saranno le famiglie che nel 2040 rappresenteranno il restante 80 per cento. Una risposta, almeno a livello statistico ci arriva dall’Istat – l’Istituto nazionale di statistica – che in un Report pubblicato il 14 marzo 2022 ipotizza l’evoluzione familiare del nostro Paese e immagina, sulla base di proiezioni scientifiche, le sette tipologie familiari che nel 2040 – mancano solo 18 anni – saranno prevalenti. E quella prevalente viene definita – con un gioco di parole che nega in realtà l’essenza stessa dell’identità familiare – come “famiglie unipersonale”, composte cioè da una sola persona, in termini statistici la definizione corretta è “famiglie senza nuclei”. Dovrebbero essere quasi due milioni in più rispetto agli attuali. Già oggi rappresentano più di un terzo di tutte le famiglie (33,3%) ma arriveranno al 38,8%, addirittura al 40,5 nel Nordovest del Paese. Tutti single che hanno rifiutato l’idea di famiglia? Assolutamente no. Secondo l’Istat sei su dieci saranno donne anziane sole (passeranno dai 4 milioni e 900mila circa del 2020 agli oltre 6 milioni del 2040) tra cui la maggior parte vedove, la cui famiglia, se ancora esiste, come dicevamo sopra a proposito dei nonni, non può o non vuole accoglierle in casa. Così queste anziane sole diventeranno – insieme a una percentuale minore di uomini anziani, circa 4 milioni e 200mila nel 2040 – la quota più rilevante delle “famiglie” italiane [...]. Quindi, se a livello statistico il numero di famiglie, sempre secondo le previsioni Istat, aumenterà, dai 25,7 milioni del 2020 fino ai 26,6 milioni del 2040 (+3.5%), aumenterà però anche la frammentazione. Le famiglie infatti saranno sempre più piccole – da 2,3 componenti in media del 2020 ai 2,1 del 2040 –, sempre più anziane e le nascite saranno sempre di meno. Il report Istat a questo proposito non lascia troppe speranze: «Dalle previsioni demografiche appare poco probabile una svolta nel numero delle nascite negli anni a venire, pur a fronte di ipotesi favorevoli nei confronti della propensione media di riproduttività da parte delle coppie. Ciò in quanto la prospettiva di avere a che fare con un numero decrescente di donne in età fertile, da un lato, e la tendenza a posticipare la genitorialità dall’altro, sembrano assumere un peso crescente » [...]. Sarebbe il caso di domandarci da cosa deriva questa crescente difficoltà di aprirsi alla prospettiva della genitorialità. Davvero nei prossimi due decenni le coppie italiane finiranno per considerare sempre meno rilevante la fecondità dell’amore? Possiamo pensare che la tendenza a fare sempre meno figli dipenda solo da precarie condizioni socio-economiche, aiuti pubblici insufficienti, politiche familiari non incisive? Oppure si tratta di un problema culturale che nasce dalla crescente incapacità di valutare il significato della generazione, secondo un paradigma sbilenco e miope che recita meno figli più tempo per se stessi, per la carriera, per il tempo libero, per il divertimento? [...] Davvero la logica della provvisorietà, del disimpegno e della liquidità finirà per avere la meglio anche nell’ambito delle relazioni che contano? Ma se anche il mondo degli affetti più importanti, quelli che costruiscono vita, identità, futuro, dovrà adeguarsi a modelli che in altri ambiti sono già prevalenti – lavoro, consumo, abitazione – che prospettive immaginare per la nostra civiltà ? Domande il cui carico di suggestioni è talmente tetro e pesante, da lasciare spiazzati.