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Verità, conoscenza e credenza. Lo studio del rapporto e della definizione di questi tre concetti impegna i filosofi da secoli, ma le cose si sono complicate dopo che Gettier nel 1963 pubblicò un articolo seminale dove era messa in discussione la posizione di Platone, da sempre invalsa, che indicava la conoscenza come credenza vera e giustificata. Credenza, in quanto ciò che si conosce va anche creduto. Vera, in quanto la conoscenza si riferisce a qualcosa di vero. Giustificata, in quanto la conoscenza non è una connessione accidentale tra credenza e realtà. Ci sono, però, ottime ragioni per dimostrare che si può reputare vera e giustificata una credenza del tutto inadeguata a essere conoscenza.
Ad esempio, si supponga che Smith e John concorrano per un posto di lavoro. Smith ha pesanti evidenze a favore della proposizione “John è l’uomo che vincerà il posto e ha dieci monetine nella tasca”. Gettier mostra quanto facilmente, nel caso John venga assunto, Smith possa reputare il fatto connesso all’avere le monetine in tasca. Uno studente sorridendo mi disse che il paradosso sarebbe facilmente risolto invocando la differenza tra credenza e creduloneria.
In realtà, a esaminare con acribia le intenzioni, ogni volta che si fa un atto di credenza il confine tra credenza e creduloneria è molto più insidioso. Serve una robusta resistenza epistemica, ovvero la capacità di intervenire con categorie che sappiano scovare l’elemento fallace alla luce di una esplicita teoria della conoscenza. Le verità scientifiche sono le migliori candidate a rendere interessante il discorso sulla verità, ma chiedono prima di tutto una definizione per la verità scientifica.
Lo scorso giugno (28-30) si è tenuto presso il Museo Galileo di Firenze un convegno dedicato a giovani studiosi e ricercatori in occasione dei quattrocento anni dalla pubblicazione di Il Saggiatore e organizzato dalla Società filosofica italiana, dalla Società di logica e filosofia della scienza e dalla Società italiana di storia della scienza (28-30 giugno). I giorni intensi di lavoro hanno visto in rassegna i migliori giovani studiosi del momento e la cosa più istruttiva e dilettevole è stata l’interazione tra sensibilità diverse: logici, storici della logica, filosofi e storici della scienza hanno condiviso i loro risultati di ricerca su temi sia classici che emergenti, con le competenze acquisite in giro per il mondo e di alto livello.
Proprio questa profondità nel penetrare i problemi, ha svelato due cose: dapprima, l’esigenza di confrontarsi tra metodologie di ricerca affini ma diverse, affinché non si resti confinati dentro le proprie convinzioni che sono facilmente criticabili adottando prospettive alternative; in secondo luogo, l’importanza di integrare queste differenze, per acquisire punti di vista non ingenui e salutari, sia per il singolo studioso che per l’intera comunità scientifica.
Più volte è emerso il problema della verità scientifica. Le teorie scientifiche afferrano qualcosa che sta al di là del tempo e dello spazio? Gli storici sono più propensi a dire no, le verità sono sempre frutto di un contesto storico e politico, della comunità scientifica che le propone, delle capacità di verifica e di indagine della natura fornite dagli strumenti scientifici. I filosofi sono più propensi a dire sì, le verità scientifiche colgono aspetti della razionalità che hanno un valore sovrastorico, colgono aspetti della natura che sono compresi una volta per tutte e la cui comprensione va semmai adattata quando nasce una nuova teoria.
Chi ha ragione? Entrambi. Le teorie scientifiche e le verità che portano sono frutto delle conoscenze possedute nel momento in cui vengono formulate: tali conoscenze derivano da quelle precedenti e sono vincolate a istituzioni che erogano conoscenza e formazione, a loro volta espressione di dinamiche sociopolitiche. È però altrettanto vero che le teorie scientifiche colgono meccanismi logici ed empirici che sembrano valere una volta per tutte: a nessuno verrebbe in mente di smentire la validità dei teoremi di congruenza di Euclide, pur sapendo che essi vanno mutati nell’ottica di una geometria non euclidea nel caso ci si muova da questa Terra verso un buco nero in prossimità del quale lo spaziotempo si incurva.
Come se ne esce? Prima di tutto, evitando le polarizzazioni e restando in un atteggiamento aperto e di apprendimento continuo. L’atteggiamento fa la differenza. Prendendo in prestito un termine che è più consono alla morale che alla filosofia della scienza, potremmo dire un atteggiamento “umile”. C’è un bel libro che vale la pena leggere, il cui titolo evoca questo atteggiamento: La scienza aperta. Per una conoscenza autoconsapevole di Paolo Campogalliani (FrancoAngeli, 2022). L’autore, già storico della scienza dell’Università di Padova, presenta due casi di teorie scientifiche che attraversarono errori, smentite e trasformazioni: la teoria del calorico che da Lavoisier porterà alla termodinamica, e quella del corpo nero di Planck che dal “nuovo teorema del calore” di Nernst lo condusse a individuare il quanto d’azione. L’indagine storica mostra quale immagine della scienza ne vada tratta: una scienza aperta, plurale, capace di far coesistere percorsi alternativi di ricerca e soprattutto di far crescere la consapevolezza che la conoscenza è esercizio critico e intelligente. Cos’è dunque la verità? È l’umiltà del (ri)cercatore, forte della fiducia nella condivisione e critica del sapere.