Luigi Einaudi (1874-1961), presidente della Repubblica dal 1948 al 1955 - Ansa/Pat
Luigi Einaudi è stata una figura pressoché unica nel Novecento italiano. “Padre della patria”, grande economista, rigoroso servitore dello Stato, insieme a Croce il più importante teorico del liberalismo in Italia nel ‘900, cattolico e liberale, brillante opinionista. Tante vite legate dall’impegno intellettuale e politico, prima per combattere il fascismo, poi per costruire la Repubblica. Nato nel 1874 a Carrù (Cuneo), dal 1902 professore di Scienze delle finanze all’università di Torino, dal ’20 al ’26 direttore dell’Istituto di economia della Bocconi di Milano, memorabili i suoi interventi su “La Stampa”, “Economist”, “Corriere della Sera” e su riviste come “Critica sociale” di Filippo Turati e “Energie nuove” e “Rivoluzione liberale”, dirette da Gobetti. Dal 1908 è direttore della rivista “Riforma sociale”, un vero e proprio laboratorio di idee liberali, chiusa da Mussolini nel 1935.
Nel 1925 firma il Manifesto degli antifascisti, promosso da Benedetto Croce in risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti di Gentile. Duro contro il regime che lo sospese dall’insegnamento universitario. Con la caduta del fascismo nel 1943, fu nominato Rettore dell’Università di Torino, incarico che dovette abbandonare per rifugiarsi in Svizzera, dopo l’occupazione nazista.
Senatore del Regno dal 1919, alla fine della guerra diventa protagonista della vita politica, giocando un ruolo di primo piano negli anni della ricostruzione. Dal 1945 al 1948 è governatore della Banca d’Italia; nel 1946 è membro dell’Assemblea Costituente; nel 1947 è ministro del Bilancio nel IV governo De Gasperi, riuscendo a stabilizzare la lira e a ridurre un’inflazione elevatissima. Dal 1948 al 1953 primo presidente della Repubblica Italiana. Anni difficili, di forte contrapposizione a livello nazionale e internazionale, nei quali Einaudi è un punto di riferimento e di equilibrio per tutto il Paese. Muore a Roma il 30 ottobre 1961, continuando fino all’ultimo la sua infaticabile attività di saggista e pubblicista.
Il suo impegno politico e intellettuale può essere interpretato come un imponente tentativo di difendere la libertà. Se i dittatori presumono tragicamente di essere onniscienti e quindi onnipotenti, la liberaldemocrazia per Einaudi è quell’habitat economico, politico e istituzionale che, assicurando a ognuno la più estesa libertà compatibile con un’analoga libertà altrui, garantisce il massimo di discussione critica garantendo a una società una elevata capacità di risolvere i problemi. Nella celebre polemica con Croce, Einaudi sosterrà che il liberalismo etico-politico non può essere dissociato da quello economico poiché senza il mercato si affermerebbe «una burocrazia comunista od oligarchia capitalistica» capace di «uniformizzare e conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini». L’economia di mercato è dunque l’altra faccia della democrazia, perché insostituibile per la realizzazione dei progetti di vita individuali.
Europeista tra i più grandi del secolo, tanto che le sue idee ispirarono il Manifesto di Ventotene. Se già alla fine dell’Ottocento proponeva gli “Stati Uniti d’Europa” come grande occasione di sviluppo del Vecchio Continente, negli anni Quaranta la “Federazione europea” diventava per Einaudi l’unica risposta che gli Europei potevano dare dopo aver vissuto i trent’anni più tragici di tutta la loro storia.
Esule in Svizzera, nel 1944 Einaudi scrive le Lezioni di politica sociale, un classico della cultura italiana del Ventesimo secolo, un capolavoro letterario e di filosofia sociale, prima che di teoria economica, di un intellettuale consapevole che le lacerazioni sociali erano state una delle principali cause dell’affermazione del fascismo. Ecco dunque che Einaudi sviluppa un’impegnata riflessione sulla solidarietà sociale. C’è un livello di solidarietà verso i più deboli che per Einaudi si può conseguire con interventi nel mercato. In primo luogo difendendo la concorrenza e combattendo i monopoli, i quali, riducendo il potere di scelta dei consumatori e imponendo i prezzi dei beni e servizi, sono «il nemico numero uno dell’economia libera», fonte di «disuguaglianze sociali» e generano profitti che sono «un ladrocinio commesso ai danni della collettività».
Ma occorrono anche interventi fuori dal mercato, attraverso una «legislazione sociale» che «avvicini entro i limiti del possibile i punti di partenza» degli individui, affermando «il principio generale che in una società sana l’uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita», che non lo «induca all’ozio», che «non sia un punto di arrivo ma di partenza; un’assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini».
Einaudi è consapevole che senza le necessarie condizioni materiali la libertà rimane un’invocazione di principio. E se queste condizioni non le crea il mercato deve intervenire lo Stato, con l’«abbassamento delle punte» di ricchezza, mediante imposte progressive, tasse sui grandi patrimoni e sulle grandi eredità, e con l’«innalzamento dal basso», per garantire un «minimo nazionale di vita» con una legislazione che si faccia carico di «pensioni di vecchiaia», «sussidi per matrimonio, figli e maternità», «assegni familiari», «sanità», «disoccupazione», e una «graduale estensione dei servizi pubblici gratuiti». Potremmo dire che per Einaudi deve valere il principio: «il mercato dove possibile, lo Stato dove necessario».
Einaudi era convinto che per sopravvivere la democrazia deve essere inclusiva, deve convincere i più poveri e le minoranze che la “società aperta” è il luogo migliore dove far valere i propri interessi e diritti. E per far questo occorre garantire i diritti sociali, oltre quelli civili. Ed è proprio quello che, anche con il contributo di Einaudi, ha fatto la democrazia italiana quando nel secondo dopoguerra ha dimostrato una non scontata forza evolutiva, dando risposte ai diritti sociali che chiedevano le masse operaie e contadine e convincendole a radicare nella democrazia le loro lotte.
Einaudi ci lascia un’immensa eredità intellettuale che è un prezioso serbatoio di idee per i problemi di oggi. E ci lascia l’esempio di un intellettuale autenticamente kantiano che ha portato la lanterna davanti al re e mai lo strascico del re e di un politico autenticamente weberiano, che non ha subordinato la ricerca del potere alla verità e che ha fatto dell’"etica della responsabilità" il suo imperativo categorico.