Una rara immagine del massacro di Debre Libanos - Tv2000
«Giustizia è fatta. Mi dicono che oltre 300 cachì sono stati fucilati». Il sottotenente degli alpini Attilio Joannas a Debre Libanos, in Etiopia, vede autocarri andare avanti e indietro, prima carichi, poi vuoti. «In ultimo un plotone di ascari con badili e piccone, i becchini. e tutto è finito. Così vengono giustiziati i ribelli, i nemici dell’Impero italiano», scrive nel suo diario il 21 maggio 1937. Quella di Joannas è la prima narrazione non ufficiale della strage da parte di un militare italiano coinvolto nell’eccidio. La pubblica ora Paolo Borruso, storico dell’Università Cattolica di Milano, nel libro Testimone di un massacro. Debre Libanos 1937: la strage fascista nel diario di un ufficiale italiano (Guerini e associati, pagine 128, euro 15,00). Gli uccisi furono molti di più rispetto alle cifre ufficiali. E non erano degli armati. Nella strage perpetrata dalla truppe coloniali italiane nei pressi del santuario etiope furono, infatti, massacrate, secondo i calcoli degli storici, dalle 1.400 alle 2mila persone, la maggior parte civili: preti, monaci, diaconi, disabili, insegnanti, pellegrini. Un massacro emerso da poco nelle sue dimensioni e gravità, a testimonianza della difficoltà con cui il nostro Paese ha fatto i conti con il passato coloniale. La strage venne per la prima volta alla luce dagli studi di Giorgio Rochat e Angelo Del Boca negli anni Settanta. Ma perché i fatti venissero a conoscenza di una fetta più ampia dell’opinione pubblica ci è voluto il 2016 (anno dell’importante visita del presidente Mattarella ad Addis Abeba) con gli articoli sulla stampa dello storico Andrea Riccardi e il documentario del giornalista di Tv2000 Antonello Carvigiani. A dare uno studio sistematico sulla vicenda – «il più grave crimine di guerra dell’Italia» – è stato poi nel 2020 lo stesso Borruso in un volume per Laterza. Ne seguirono autorevoli prese di posizione – e assunzioni di responsabilità storica – da parte del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, che istituì una speciale commissione di esperti. E a nome della Chiesa dall’allora presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti. Infatti, nel clima propagandistico, «gravi responsabilità – scrive Borruso – ebbe anche gran parte del mondo cattolico e dell’episcopato italiani, le cui posizioni pubbliche finirono per legittimare il piano espansionistico del fascismo». Al diario lo studioso accompagna una prefazione che da sola occupa metà del volume. È, infatti, non solo l’occasione per ricapitolare i fatti (come l’uso dei gas) e le colpe del regime fascista nella politica razzista condotta in Etiopia, in particolare quelle del maresciallo Rodolfo Graziani, vicerè dell’Africa orientale italiana, e del generale Pietro Maletti, al cui fianco Joannas operò. Ma anche per dare conto della mole di memorie scritte dai ranghi inferiori dell’esercito sulla guerra del 1935-1936, l’unica vinta dal fascismo, che stanno emergendo dagli studi di un altro storico del colonialismo, Nicola Labanca. Ne risulta un punto di vista ben diverso da quello ufficiale. In particolare una distanza tra la realtà trovata sul campo e le informazioni date dai comandi prima della partenza, ma anche a livello ideologico (pur essendo presenti toni che riflettono la propaganda). Il diario di Joannas, piemontese classe 1913, va dall’8 febbraio, data della sua partenza, ai primi di giugno del 1937. Sono proprio, dopo l’attentato a Graziani del 19 febbraio, «i mesi cruciali dell’azione repressiva italiana nei confronti della popolazione civile e del clero etiopici, ritenuti conniventi con la resistenza antiitaliana », nota Borruso. Azione che ha nella località di Ficcè, alla quale l’alpino viene destinato, un punto nevralgico. Joannas comanda un battaglione di ascari, con i quali entra in simbiosi, ricevendo per il suo valore il soprannome di “ ambessà” (leone). La Pasqua porta una breve tregua. E Joannas cerca conforto nel rosario. Ma presto riprendono i rastellamenti alla ricerca dei “ribelli”, gli sconti a fuoco, gli incendi dei tucul, le impiccagioni. Il 20 maggio a Debre Libanos Joannas si fa prendere dalla pietà. «Che macabro spettacolo », esclama davanti ai malati che vivono nelle grotte in cui cerca uomini sani da deportare. «Quale brutto e desolante compito fu per me». Parole di presa di distanza alle quali fa, però, seguire la necessità di indurire il cuore per assolvere agli ordini. «Una sorta di schizofrenia interiore porta l’ufficiale a prendere consapevolezza dell’orrore della guerra, ma anche a chiudere il dilemma recuperando un senso esaltato del dovere che lo induce a giudicare e ad agire con intento distruttivo. Invoca il perdono di Dio, ma finisce per seguire un istinto di “doverosa crudeltà”, che lo spinge a ordinare l’incendio di numerosi tucul », commenta Borruso. A testimonianza della confusione ingenerata negli uomini da guerra e ideologia.